Stili: Cosmatesco

Stili: Cosmatesco

Lo stile cosmatesco è una definizione usata nella storia dell'arte e in architettura, relativamente a un tipo di ornamentazione caratteristica dei marmorari romani del XII e XIII secolo, consistente nell'abbellire pavimenti, cibori e chiostri mediante tarsìe marmoree policrome di forme svariate e fantasiose. Nel secolo scorso questa decorazione fu chiamata "cosmatesca" perché usata dalla famiglia dei Cosmati, così detti dal nome di un membro, Cosma, figlio di Jacopo di Lorenzo.

Lo stile cosmatesco, a rigore, deve essere riferito non solo alle tipiche ornamentazioni realizzate dagli artisti marmorari romani, sia della famiglia dei Cosmati, che delle altre famiglie coeve, come quella dei Vassalletto, dei Mellini, di magister Paulus o di Rainerius per quanto concerne i lavori decorativi degli arredi liturgici e dei pavimenti - nelle tecniche dell'opus tessellatum in tessere di paste vitree nel primo caso e in tessere lapidee nel secondo caso - ma anche allo stile della cosiddetta microarchitettura, all'interno della quale rientrano quei lavori di grande importanza come i chiostri cosmateschi, di cui esempi eccellenti sono quelli del Monastero di Santa Scolastica a Subiaco, o come quelli delle basiliche romane di San Paolo fuori le Mura, di San Giovanni in Laterano e della Basilica dei Santi Quattro Coronati.

Il termine "stile cosmatesco" può essere considerato, forse impropriamente, una estensione della definizione di "architettura cosmatesca" coniata dallo studioso Camillo Boito nell'omonimo articolo pubblicato nel 1860. A rigore, quindi, rientrerebbero nello "stile cosmatesco", anche lavori architettonici di grande respiro realizzati dai marmorari romani, come il campanile del duomo di Gaeta di Nicola d'Angelo, che non rientra però direttamente nella genealogia della famiglia dei Cosmati veri e propri, cioè della famiglia di marmorari romani iniziata con Tebaldo e proseguita dai discendenti Lorenzo, Iacopo, Cosma, ecc. Infine, l'uso improprio del termine ricorre spesso ancora oggi, nell'ambiente dei non addetti ai lavori, quando si parla di pavimenti o di decorazioni "cosmatesche" per le quali i verì Cosmati romani nulla hanno a che fare, e queste sono la maggior parte di opere, nello stesso stile, ma eseguite con caratteri diversi, soprattutto negli sviluppi delle componenti locali e di derivazione arabo-islamica, da artisti meridionale di influenza siculo-campana.

Così lo "stile cosmatesco", viene utilizzato in modo generico sia quando si parla delle opere pavimentali e decorative delle basiliche romane dove lavorarono in massima parte i veri Cosmati, sia quando ci si riferisce alle opere musive del meridione d'Italia per le quali i Cosmati non hanno meriti, se non forse quello indiretto di essere emulati da artisti per i quali essi costituirono un modello di riferimento, sebbene del classicismo romano, ma imprescindibile, data la fama che i marmorari romani avevamo raggiunto tra l'XI e il XII secolo. Lo stile cosmatesco, quindi, dovrebbe essere riferito eslcusivamente alle opere dei Cosmati della famiglia di Lorenzo di Tebaldo e sarebbe già una generalizzazione se venisse riferito anche alle famiglie di marmorari romani coeve dei Cosmati. Erroneo, perciò, sarebbe parlare di stile cosmatesco riferendosi alle opere architettoniche e decorative musive degli artisti che operarono al di fuori dell'ambito dei marmorari romani in generale, e nello specifico della famiglia dei Cosmati.

Da Wikipedia: Stile cosmatesco

Bibliografia:

Camillo Boito, Architettura Cosmatesca, Torino, 1860
Edward Hutton, The Cosmati, 1950
Guglielmo Matthiae, Componenti del gusto decorativo cosmatesco, in Rivista dell'Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell'Arte, vol. I, 1952, pp. 249-281

Chiese: San Lorenzo in Palatio

Titolo dell'opera: San Lorenzo in Palatio
Autore: n.n.
Anno di esecuzione: 768 (prima attestazione)
Luogo: Roma (rione Monti)


La chiesa di San Lorenzo in Palatio è una chiesa di Roma, nel rione Monti, in piazza san Giovanni in Laterano.

La chiesa si trova all’interno del complesso edilizio che conserva la Scala Santa presso la basilica di San Giovanni in Laterano. In origine questo palazzo era il palazzo patriarcale, sede del vescovo di Roma, e la chiesa era la cappella privata del pontefice: oggi essa è ciò che resta dell’antico palazzo patriarcale. La più antica menzione della chiesa si trova nella biografia di papa Stefano III (768-772); essa fu restaurata da Onorio III (1216-1227) e ricostruita da Niccolò III (nel 1278); nel XVI secolo papa Sisto V fece traslocare qui la Scala Santa, che ora serve da accesso alla chiesa.

La chiesa è conosciuta anche come Sancta Sanctorum (lett. «le cose sante tra le sante»), nome che rievoca quella parte del tempio di Gerusalemme ove era custodita l’Arca dell'Alleanza, e questo titolo gli deriva dal fatto che in essa erano custodite le più preziose reliquie cristiane, tra cui il prepuzio di Gesù bambino, i suoi sandali, il divano su cui assistette all'ultima cena, il bastone con cui fu percosso il suo capo coronato di spine, le teste dei santi Pietro e Paolo, e molte altre. Molte di queste reliquie sono oggi scomparse o conservate altrove.

Internamente la chiesa è stata decorata dai Cosmati, secondo un’iscrizione interna: Magister Cosmatus fecit hoc opus.

Gli affreschi che si trovano sulla parte alta della cappella e sulla volta sono del XIII secolo. Nelle vele sono rappresentati i quattro evangelisti, sulla parete sopra l'altare ai fianchi della finestra a sinistra è raffigurato Niccolò III inginocchiato che offre il modellino della cappella con a lato i santi Pietro e Paolo, a destra il Cristo in trono con due angeli. A destra dell'ingresso sono raffigurate il martirio di san Pietro e san Paolo, di fronte all'altare, la Lapidazione di Santo Stefano e il Martirio di San Lorenzo, la Decapitazione di Sant'Agnese e il Martirio di San Nicola.

Alla base degli affreschi è presente una loggia denominata dei santi realizzata sotto il pontificato di Sisto V, probabilmente tra il giugno e luglio 1590 sotto la direzione dei pittori Cesare Nebbia e Giovanni Guerra a cui hanno preso parte molti artisti attivi a Roma in quel periodo[1].

L'altare conserva un’antichissima immagine di Gesù Redentore detta acheropita, cioè non dipinta da mano umana: la tradizione infatti narra che l’icona fu dipinta dall’evangelista Luca aiutato da un angelo. Questa immagine era molto venerata fin dal pontificato di Stefano II, il quale ordinò una processione per la città con la sacra immagine per implorare l’aiuto divino contro i Longobardi condotti da Astolfo. Nel XIII secolo la tavola fu adornata da una lamina d'argento per opera di papa Innocenzo III. Non si conosce esattamente l’origine di questa immagine: l’Armellini propone un’origine bizantina in epoca della lotta iconoclasta (VIII secolo).






Sopra l'altare vi è l'iscrizione: 

Non est in toto sanctior orbe locus ("non esiste al mondo luogo più santo di questo").

Bibliografia


Mariano Armellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Roma 1891, pp. 109-112.
Christian Hülsen, Le chiese di Roma nel Medio Evo, Firenze 1927, p. 291.
Patrizia Tosini, La loggia dei santi del Sancta Sanctorum: un episodio di pittura sistina, in AA.VV., Sancta Sanctorum, Milano 1995, pp. 202-223.
Claudio Rendina, Le Chiese di Roma, Newton & Compton Editori, Milano 2000, p. 179.

Egitto - Saqqara - Serapeum

Titolo dell'opera: Serapeum
Autore: -
Anno di esecuzione: -
Luogo: Saqqara (Egitto)

Il Serapeo di Saqqara, un'importante necropoli egizia situata presso Menfi, sorse sul complesso sepolcrale dei tori Api, ritenuti la manifestazione vivente del dio Ptah. Le più antiche sepolture dei tori sacri, imbalsamati e chiusi nei sarcofaghi, risalgono al regno di Amenofi III.

Nel XIII secolo a.C. Khaemuaset, figlio di Ramesse II, fece scavare nella montagna una galleria, sui cui lati vennero ricavate delle nicchie dove vennero alloggiati i sarcofaghi dei tori. Una seconda galleria, lunga 350 m, alta 5 m e larga 3 m, fu fatta costruire da Psammetico I ed in seguito utilizzata dai Tolomei.
Il viale delle 600 sfingi che collegava il sito alla città fu probabilmente opera di Nectanebo I.

La scoperta del Serapeo è dovuta a Auguste Mariette che scavò la maggior parte del complesso. Ma le sue note di scavo sono andate perdute e questo ha limitato l'utilità delle sepolture per stabilire una cronologia della storia egizia. Il problema consiste nella circostanza che dal regno di Ramesse XI al 23º anno di regno di Osorkon II, un periodo valutato in circa 250 anni, si conoscono solamente nove sepolture di tori, numero questo che include anche tre sepolture attualmente non note ma attestate da Mariette che disse di averle rilevate in una sala sotterranea troppo instabile per poter essere scavata. Gli egittologi ritengono che avrebbero dovuto esservi un maggior numero di sepolture di tori, nel periodo considerato, in quanto la vita media di un toro era di 25-28 anni, se non moriva prima, e quattro sepolture attribuite da Mariette al regno dei Ranmesse XI sono state retrodatate. Questa ha creato un vuoto di circa 130 anni che gli studiosi hanno cercato di colmare in vari modi. Secondo alcuni si deve rivedere tutta la cronologia della XX dinastia con uno spostamento in avanti delle date secondo altri studiosi esistono ulteriori sepolture di tori Api che non sono ancora state scoperte.

Da Wikipedia: Serapeo di Saqqara
Bibliografia
Auguste Mariette, Le Sérapéum de Memphis, découvert et décrit, Paris, Gide, 1857
Auguste Mariette, Le Sérapéum de Memphis, Paris, F. Vieweg, 1892
Jean Vercoutter, Textes biographiques du Sérapéum de Memphis: Contribution à l'étude des stèles votives du Sérapéum, Paris, Librairie ancienne Honoré Champion, 1962