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Lamina di re Agilulfo

Titolo dell'opera: Lamina di re Agilulfo
Autore: n.n.
Anno di esecuzione: V secolo
Luogo: Firenze (Museo Nazionale del Bargello)


La Lamina di re Agilulfo, nota anche come Trionfo di re Agilulfo, è un manufatto in bronzo lavorato a sbalzo e dorato, di forma trapezoidale (il bordo inferiore presenta due rientranze semicircolari) che misura 18,9 cm in lunghezza e 6,7 cm in altezza, prodotto da orafi longobardi intorno al VII secolo, riproducente una scena di trionfo. Si trova ora conservata a Firenze nel Museo Nazionale del Bargello.

Resta il dubbio sulla natura e sulla funzione di tale lamina: storici e archeologi si dividono tra chi presuppone che essa sia il frontale di un elmo e chi invece rifiuta tale teoria, ipotizzando che la lamina fosse in realtà la decorazione di un oggetto prezioso, forse un reliquiario.

La lamina è stata interpretata come un manufatto prodotto in riferimento all'assedio di Roma del 593 che costrinse papa Gregorio Magno a versare trecento libbre d'oro per evitare il sacco della città, subendo l'imposizione di subordinazione dei vinti - che sotto l'aspetto religioso implicava un riconoscimento di superiorità dell'arianesimo.

Il reperto venne trovato presso le rovine di un castello nella Val di Nievole, sul confine che divideva il territorio longobardo da quello bizantino nel 593.

La lamina, lavorata a sbalzo, presenta una decorazione continua sull'intera superficie: al centro una figura riccamente vestita siede in trono, ripreso frontalmente con la mano destra in posizione di allocutio e con la sinistra stringete una spada; ai lati due guerrieri, bardati con armature dalla foggia barbarica, con elmi conici a spicchi coronati da un pennacchio, lance e scudi rotondi con umboni. Convergono verso il gruppo centrale (in maniera simmetrica) due vittorie alate - segno del tentativo di contaminatio tra arte longobarda e modelli classici -: entrambe impugnano con la mano che si rivolge al trono una cornucopia a forma di corno potorio, mentre nell’altra mano sostengono un labaro con la scritta "VICTVRIA" punzonata. Ciascuna vittoria precede un gruppo di due persone che sembrano uscire da una torre stilizzata (simbolo di una città): il primo (con le gambe genuflesse) compie un gesto di riverenza e di offerta, mentre il secondo porge al sovrano una corona sormontata da una croce.
La figura al centro è circondata dalla scritta punzonata "DN AG IL V REGI" ("Al signore re Agilulfo"), che identificherebbe il personaggio con Agilulfo, re longobardo dal 591 al 616; tuttavia, riguardo a tale identificazione sono stati sollevati dubbi, in quanto alcuni ritengono che la scritta sia una falsificazione operata nel corso del XIX secolo.

Le figure costruite in maniera paratattica, ovvero accostate senza tener conto della profondità spaziale, sembrano prive di peso, ma nonostante questo, i personaggi, dai volti volutamente espressionistici, tanto da assumere un carattere grottesco, sono rese con un modellato che ridà un certo senso plastico e, nella minuta descrizione dell'abbigliamento, rivela un intento naturalistico. La frontalità dei personaggi centrali e la distribuzione simmetrica delle figure sono caratteri di origine bizantina.

Da Wikipedia: Lamina di re Agilulfo


  • Bibliotheca Sanctorum, Roma 1966
  • Piero Adorno, L'Alto Medioevo in L'arte italiana, Firenze, D'Anna, 1992, Vol. 1, tomo II, pp. 558-579..
  • Giulio Carlo Argan, I primi secoli del Cristianesimo in Storia dell'arte italiana, 25ª ed., Firenze, Sansoni, 1992, Vol. 1, pp. 191-237., ISBN 88-383-0803-9.
  • Pierluigi De Vecchi, Elda Cerchiari, I Longobardi in Italia in L'arte nel tempo, Milano, Bompiani, 1991, Vol. 1, tomo II, pp. 305-317., ISBN 88-450-4219-7.
  • Chiara Frugoni, Immagini fra tardo antico e alto medioevo: qualche appunto in Morfologie sociali e culturali in Europa fra tarda antichità e alto medioevo, Spoleto, 1998, Tomo II, pp. 703-744..
  • (EN, DE) Cristina La Rocca, Stefano Gasparri, Forging an early medieval royal couple: Agilulf, Theodolinda and the "Lombard Treasure" (1888-1932) in Archäologie der Identität, Vienna, 2010, pp. 269-287..
  • Maria Silvia Lusuardi Siena, Una precisazione sulla lamina di Agilulfo dalla Valdinievole in Studi di storia dell’arte in onore di Maria Luisa Gatti Perer, Milano, 1999, pp. 15-26..
  • Natale Rauty, Il Regno Longobardo e Pistoia, Pistoia, 2005.
  • Wilhelm Kurze, La lamina di Agilulfo: usurpazione o diritto? in Atti del VI Congresso Internazionale di Studi sull’Alto medioevo (Milano 1978), Spoleto, 1980, Tomo II, pp. 447-456..
  • Pierluigi De Vecchi ed Elda Cerchiari, I tempi dell'arte, volume 1, Bompiani, Milano 1999. ISBN 88-451-7107-8

Battistero: San Giovanni (Firenze)

Titolo dell'opera: Battistero di San Giovanni
Autore: n.n.
Anno di esecuzione: XI Secolo
Luogo: Firenze


Il battistero dedicato a san Giovanni Battista, patrono della città di Firenze, sorge di fronte al duomo di Santa Maria del Fiore, in piazza San Giovanni.

Inizialmente era collocato all'esterno della cerchia delle mura, ma fu compreso, insieme al duomo, nelle mura realizzate da Matilde di Canossa ("quarta cerchia"). In origine era circondato da altri edifici, come il palazzo Arcivescovile che arrivava molto più vicino, i quali vennero abbattuti per creare l'attuale piazza.

Il battistero si trova fra piazza del Duomo e piazza San Giovanni, fra il duomo e l'arcivescovado, nel centro religioso della città. La facciata principale dell'edificio ottagonale è rivolta verso il duomo, mentre l'abside si trova verso ovest.

Origini del complesso
Le origini del monumento fiorentino costituiscono uno dei temi più oscuri e discussi di tutta la storia dell'arte. Fino al cinquecento si seguiva l'antica tradizione fiorentina secondo cui esso sarebbe stato in origine un tempio di Marte, modificato nel medioevo solo nell'abside e nella lanterna. Nei secoli seguenti invece questa idea fu gradualmente abbandonata, anche perché alla fine dell'ottocento scavando sotto di esso apparvero i resti di domus romane, probabilmente del I secolo d.C., con pavimenti a mosaico a motivi geometrici. Si ritenne quindi che ciò dimostrasse l'origine medievale del monumento, e su questo presupposto si basano la maggior parte delle teorie attuali,che ipotizzano una data di fondazione intorno al IV-V secolo d.C, oppure intorno al mille, forse con rimaneggiamenti avvenuti tra il VII secolo durante la dominazione longobarda e l'XI, quando il Battistero fu consacrato da papa Niccolò II il 6 novembre 1059. Queste spiegazioni restano però ancora discusse, e va anche detto che negli ultimi anni è stata avanzata l'ipotesi che le tradizioni fiorentine avessero sostanzialmente ragione, e che l'edificio sia stato eretto in ricordo della vittoria di Stilicone su Radagaiso, avvenuta a Firenze nel 406, e poi trasformato in chiesa. Del fatto di guerra sarebbe rimasto il ricordo nel nome popolare di "Tempio di Marte". In questo caso i reperti romani degli scavi andrebbero spiegati non come resti di devastazioni barbariche ma come demolizioni eseguite proprio per costruire l'edificio.

La prima citazione del Battistero risale all'anno 897, quando l'inviato dell'imperatore rende giustizia sotto il portico "davanti alla chiesa di San Giovanni Battista": quindi il termine "chiesa" fa capire che a quella data l'edificio era officiato, anche se non si sa se avesse già le funzioni di battistero. Comunque sia, il papa fiorentino Niccolò II lo consacrò il 6 novembre 1059, probabilmente dopo vari lavori di restauro.

Nel 1128 l'edificio diventò ufficialmente battistero cittadino e intorno alla metà dello stesso secolo venne eseguito un rivestimento esterno in marmo, successivamente completato anche all'interno; il pavimento, sempre in tarsie marmoree, viene realizzato nel 1209.
Secondo alcuni la cupola sarebbe stata realizzata nella seconda metà del XIII secolo, ma di ciò non esiste nessun documento, e tecnicamente l'ipotesi è assai discussa.

I mosaici della scarsella risalgono verso il 1220 e successivamente fu eseguito il complesso mosaico della cupola a spicchi ottagonali, al quale si lavora tra il 1270 e il 1300, con l'intervento di frate Jacopo e la partecipazione di Coppo di Marcovaldo e di Cimabue.

Tra il 1330 e il 1336 viene eseguita la prima delle tre porte bronzee, con l'utilizzo di 24 formelle, commissionata ad Andrea Pisano dall'Arte di Calimala, l'arte più antica dalla quale discendono tutte le altre, sotto la cui tutela era il battistero: essa era di fatto in competizione con l'Arte della Lana che patronava invece il vicino duomo. La porta, forse inizialmente collocata sul lato est, il più importante, di fronte al Duomo, fu spostata sul lato sud per collocare al posto d'onore la seconda porta: tale notizia, riportata dal Vasari e ripresa un po' da tutte le fonti fino ad oggi, è stata messa recentemente in dubbio per discrepanze nelle misure tra le due aperture. Verso il 1320 inoltre Tino di Camaino aveva scolpito tre gruppi scultorei entro nicchie per decorare la parte sopra i portali di ciascun ingresso: consumate dalle intemperie vennero poi gradualmente sostituite dalla fine del Quattrocento in poi: la maggior parte dei frammenti è oggi nel Museo dell'Opera del Duomo.

Quest'ultima, tra il 1401 e il 1424, venne realizzata da Lorenzo Ghiberti, vincitore di un concorso a cui parteciparono anche Filippo Brunelleschi, Jacopo della Quercia, Simone da Colle Val d'Elsa, Niccolò di Luca Spinelli, Francesco di Valdambrino e Niccolò di Pietro Lamberti. Inizialmente collocata sul lato orientale, fu a sua volta poi spostata sul lato nord. Nel corso del restauro iniziato nel 2013 si è scoperto, pulendo le formelle, che le figure dei bassorilievi sono dorate, tramite doratura ad amalgama di mercurio su base bronzea.

La terza porta, con formelle interamente rivestite d'oro, eseguita sempre dal Ghiberti tra il 1425 e il 1452 e chiamata da Michelangelo "Porta del Paradiso", tuttora occupa il lato orientale. Per la realizzazione delle due porte, il Ghiberti creò una vera e propria bottega di bronzisti, nella quale si formarono artisti come Donatello, Michelozzo, Masolino e Paolo Uccello.

Nel 1576, in occasione del battesimo dell'atteso erede maschio del granduca Francesco I de' Medici, Bernardo Buontalenti ricostruì il fonte battesimale, distruggendo i battezzatoi medievali ricordati da Dante Alighieri (Inf. XIX vv. 16-20), nonché il coro che era nell'abside.

Il battistero fiorentino era luogo di investitura di cavalieri e poeti, come ricorda Dante Alighieri nel Paradiso (XXV, 7-9): "con altra voce omai, con altro vello / ritornerò poeta, e in sul fonte / del mio battesmo prenderò 'l cappello". Era sede deputata per solenni giuramenti, nonché per la celebrazione in onore del patrono cittadino con il dono delle stoffe pregiate (i palii) da parte dei magistrati del Comune nella ricorrenza del Battista (24 giugno).

Esterno

Ha pianta ottagonale, con un diametro di 25,60 m, quasi la metà di quello della cupola del Duomo. L'ottagono è già figura tipica dei battisteri, soprattutto medievali e di ispirazione bizantina, di cui l'ipotesi più probabile è quella di ricordare l'"ottavo giorno" della settimana, che nel Nuovo Testamento del Cristianesimo è simbolo di Resurrezione ed Eternità.
La necessità di un edificio di vaste dimensioni si spiega con l'esigenza di accogliere la folla che riceveva il battesimo solo in due date prestabilite all'anno. Anticamente era sopraelevato di alcuni gradini, scomparsi con l'innalzamento graduale del piano del calpestio, che Leonardo da Vinci aveva pensato di ricreare studiando un modo per sollevare in blocco l'edificio e ricreare una nuova piattaforma.

L'edificio è coperto da una cupola ad otto spicchi, mascherata all'esterno dall'attico e coperta da un tetto a piramide schiacciata. Sul lato opposto all'ingresso sporge il corpo dell'abside rettangolare (scarsella).

L'ornamento esterno, in marmo bianco di Carrara e verde di Prato, è scandito da tre fasce orizzontali, ornate da riquadri geometrici, quella mediana occupata da tre archi per lato, nei quali sono inserite superiormente finestre con timpani. Il pilastri in marmo verde del registro inferiore corrispondono colonne poligonali in strisce bianche e nere in quello superiore, reggenti gli archi a tutto sesto. I pilastri angolari, originariamente in pietra serena, furono poi rivestiti pure di marmo. Si tratta di uno spartito di gusto classico, usato già in altri monumenti romanici come la facciata di San Miniato al Monte, che testimonia il perdurare a Firenze della tradizione architettonica della Roma antica.

Nonostante il battistero sia considerato la matrice del “Romanico fiorentino”, alcune caratteristiche della sua architettura non hanno riscontro altrove. La disposizione di colonne e capitelli – differenziati per tipologia e per colore del marmo – non è né uniforme né casuale, ma come nella architetture della Tarda antichità è finalizzata a indicare precise gerarchie spaziali. All’interno l’asse principale est-ovest è indicato dal contrapporsi dell’arcone e della coppia di colonne con capitelli compositi ai lati della Porta del Paradiso (in tutti gli altri casi abbiamo invece capitelli corinzi, eccetto uno probabile frutto di restauro); un secondo asse di simmetria obliquo sudest-nordovest è invece indicato dai fiori dell’abaco dei capitelli corinzi di pilastro, che sono di tre tipi differenti. All’esterno le finestre a edicola si differenziano per forma, tipo di capitelli e colonne, e colore dei marmi impiegati, secondo un ordinamento molto complesso che distingue i lati obliqui da quelli volti ai punti cardinali e tra questi il lato est, con l'ingresso principale, differenziato in tutto dagli altri. La disposizione simmetrica di differenti tipi di capitelli si riscontra anche nei tre lati volti a sud dell’attico, verosimilmente eseguiti per primi perché rivolti alla città.

Le tre porte bronzee, realizzate secondo un programma figurativo unitario nell'arco di più di un secolo, mostrano la storia dell'umanità e della Redenzione, come in una gigantesca Bibbia figurata. L'ordine narrativo, sconvolto dal cambiamento di posizione delle singole porte, va dalle Storie dell'Antico Testamento nella porta est, a quelle del Battista nella porta sud, fino a quelle del Nuovo Testamento (Storie di Cristo) nella porta nord


L'interno è a pianta ottagonale, con un diametro di 25,6 metri. La decorazione interna è ispirata agli edifici romani, come il Pantheon, con un ampio uso di specchiature marmoree policrome. È suddivisa, come all'esterno, in tre fasce orizzontali, la più alta però coperta dalla cupola, mentre la fascia mediana è occupata dai matronei. Inferiormente le pareti sono suddivise verticalmente in tre zone per mezzo di lesene e di colonne monolitiche in granito e in marmo cipollino di spoglio (come gran parte dei marmi del rivestimento), con capitelli dorati che reggono l'architrave. Le pareti, tripartite da colonne e raccordate agli angoli da doppi pilastri scanalati in marmo, presentano un rivestimento marmoreo a due colori alternati in fasce e altre forme, bianco di Carrara e verde di Prato. Sopra le bifore si trovano tarsie geometriche, databili a prima del 1113, a giudicare dall'iscrizione sul sarcofago del vescovo Ranieri.

La fonte battesimale in origine occupava il centro del pavimento, dove si trova un ottagono in cocciopesto. Il pavimento presenta tarsie marmoree di grande pregio, di gusto orientalizzante, con motivi geometrici, fitomorfi e zoomorfi spesso legati ad animali di fantasia, ispirati ai tessuti provenienti dal Mediterraneo meridionale e orientale. Essi furono realizzati in tutta probabilità dalle stesse maestranze che lavorarono anche, fino al 1207, in San Miniato al Monte. Dal 1048, su iniziativa di Strozzo Strozzi, esisteva nel battistero un orologio solare: attraverso un foro praticato nella cupola, i raggi solari colpivano nel corso dell'anno i segni dello zodiaco su una lastra di marmo collocata presso la porta nord, il riquadro zodiacale che oggi è in corrispondenza della porta est, in seguito al rifacimento del XIII secolo. Sulla lastra è riportato il verso palindromo "en giro torte sol ciclos et rotor igne".

Un'altra caratteristica del battistero che non ha riscontri nell’architettura romanico-gotica è la relazione architettonica tra le facciate, che – sia all’interno che all’esterno – non sono raccordate da nodi strutturali (gli attuali pilastri bicolori esterni sono un rifacimento: in origine erano in arenaria e separavano le facciate contigue incrostate di marmi), ma sono invece intese come unità bidimensionali indipendenti e solo accostate – all’interno addirittura separate da un vuoto angolare – in modo da esaltare l’architettura del battistero come puro solido geometrico.

Dante cita il battistero nella sua Divina Commedia: nel XIX canto dell'Inferno:

Non mi parean [i fori] men ampi né maggiori /che que' che son nel mio bel San Giovanni, /fatti per loco de' battezzatori (versi 16-18). Egli inoltre dice che una volta, per salvare un ragazzo che rischiava di affogare, fu costretto a rovesciare una delle pozze dove si battezzavano i fanciulli, rompendone il bordo. Questa frattura, secondo i cronisti fiorentini, era ancora visibile quando le fonti battesimali vennero distrutte nel 1576.
L'altare è neoromanico e venne creato da Giuseppe Castellucci ai primi del Novecento recuperando frammenti originali e sostituendo il precedente altarone barocco di Girolamo Ticciati (1732, oggi nei depositi del Museo dell'Opera del Duomo). Davanti all'altare una grata lascia intravedere i sotterranei, in cui si trovano gli scavi della domus romana con pavimenti a mosaici geometrici, venuta alla luce durante gli scavi del 1912-1915.

Mosaici


Il rivestimento a mosaico della cupola fu impresa difficile e dispendiosa; i lavori iniziarono forse intorno al 1270 e si conclusero agli inizi del secolo successivo.

Presenta otto spicchi ed è rivestita da mosaico su fondo dorato. Su una fascia superiore sono raffigurate le gerarchie angeliche (2 nello schema) Su tre degli spicchi (1 nello schema) è raffigurato il Giudizio Universale, dominato dalla grande figura del Cristo: sotto i suoi piedi avviene la resurrezione dei morti, alla sua destra i giusti sono accolti in cielo dai patriarchi biblici, mentre alla sua sinistra si trova l'inferno con i suoi diavoli.

Gli altri cinque spicchi sono suddivisi in altri quattro registri orizzontali, dove sono raffigurate a partire dall'alto: storie della Genesi (3), storie di Giuseppe (4), storie di Maria e di Cristo (5) e storie di San Giovanni Battista (6).

Furono impiegate, secondo alcuni, maestranze veneziane, coadiuvate sicuramente da importanti artisti locali che fornirono i cartoni, come Coppo di Marcovaldo, autore dell'Inferno, Meliore per alcune parti del Paradiso, il Maestro della Maddalena e Cimabue, cui sono attribuite le prime storie del Battista.

Altre opere

All'interno si trovano due sarcofagi romani: uno detto "della fioraia", da un soggetto del bassorilievo, dove venne sepolto il vescovo Giovanni da Velletri, e uno con scena di caccia al cinghiale, con un coperchio cinquecentesco con stemma Medici aggiunto quando venne reimpiegato come sepoltura di Guccio de' Medici, gonfaloniere di Giustizia nel 1299. Tra questi sarcofagi si trova un statua del Battista di Giuseppe Piamontini (1688 circa) donata da Cosimo III de' Medici. Sulla parete destra dell'abside si conserva il monumento funebre del vescovo Ranieri, costituito da un sarcofago con un'iscrizione del 1113 in esametri leonini.

A destra dell'abside il monumento funebre dedicato a Baldassarre Cossa, l'antipapa Giovanni XXIII, morto a Firenze nel 1419, eseguito da Donatello e Michelozzo tra il 1422 e il 1428. L'angelo reggicandela a destra dell'altare, posto su una colonnina con base leonina, è di Agostino di Jacopo e risale al 1320. Il candelabro per il cero pasquale è pure attribuito allo stesso autore. Ai lati delle porte tre coppie di acquasantiere su colonne tortili. Il fonte battesimale, fatto principalmente di un unico blocco marmoreo, è attribuito a un seguace di Andrea Pisano (1371) e mostra sei bassorilievi con Scene di battesimo.

Vi era esposta anche la Maddalena penitente, scolpita da Donatello in legno. Danneggiata nell'alluvione del 1966 l'opera è attualmente esposta nel Museo dell'Opera del Duomo. Perduto è invece l'affresco con San Giovanni al di sopra della porta sud, opera del 1453 di Alesso Baldovinetti. Per il battistero erano stati realizzati inoltre l'altare argenteo e il Parato di San Giovanni (su disegno di Antonio del Pollaiolo), tutte opere al museo dell'Opera.

Da Wikipedia: Battistero San Giovanni


Bibliografia

  • Piero Degl'Innocenti: Le origini del bel San Giovanni. Da tempio di Marte a battistero di Firenze, Edizioni Cusl, Firenze 1994. ISBN 88-8021-037-8; ristampa: Libreria Alfani Ed., Firenze 2014, ISBN 978-88-88288-26-0
  • Rolf C. Wirtz: Florenz. Könnemann, Köln 1999. ISBN 3-8290-2659-5
  • Gerhard Straehle: Die Marstempelthese - Dante, Villani, Boccaccio, Vasari, Borghini. Die Geschichte vom Ursprung der Florentiner Taufkirche in der Literatur des 13. bis 20. Jahrhunderts, Gerhard Straehle, München 2001. ISBN 3-936275-00-9
  • Giuseppe Marchini Langewiesche: Baptisterium, Dom und Dommuseum in Florenz, K.R. Langewiesche, Königstein im Taunus 1980. ISBN 3-7845-6130-6
  • Annamaria Giusti: Das Baptisterium San Giovanni in Florenz, Mandragora, Florenz 2000. ISBN 88-85957-57-9
  • Carlo Montrésor: Das Museum der Opera del Duomo von Florenz, Schnell & Steiner, Regensburg/Florenz 2000, 2003. ISBN 3-7954-1615-9
  • Alberto Busignani – Raffaello Bencini: Le chiese di Firenze. Il Battistero di San Giovanni, Firenze 1988.
  • AA.VV., a cura di Domenico Cardini: Il Bel San Giovanni e Santa Maria del Fiore. Il Centro religioso di Firenze dal Tardo Antico al Rinascimento, Firenze 1996. ISBN 88-7166-282-2
  • Guglielmo De Angelis D’Ossat: “Il Battistero di Firenze: la decorazione tardo romana e le modificazioni successive”, IX Corso di cultura sull’arte ravennate e bizantina, Ravenna 1962.
  • AA.VV., Guida d'Italia, Firenze e provincia "Guida Rossa", Touring Club Italiano, Milano 2007.
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Duccio - Maestà Rucellai

Titolo dell'opera: Maestà Rucellai
Autore: Duccio di Buoninsegna
Anno di esecuzione: 1285
Luogo: Firenze (Galleria degli Uffizi)


La tavola è la più grande che ci sia pervenuta riguardo al Duecento e venne dipinta dal pittore senese, allora giovane e in patria straniera (Firenze e Siena erano due repubbliche diverse).

L'opera si ispira alla Maestà del Louvre di Cimabue, dipinta circa cinque anni prima, con la stessa disposizione del trono in tralice, la stessa inclinazione dei volti, i medesimi gesti della madre col figlio, la stessa impostazione della cornice. Il tema però è qui rappresentato con una nuova sensibilità, più "gotica", carico di ancora maggiore dolcezza nei volti e nella dolente umanità che supera i rigidi schematismi bizantini, facendo eco all'importanza tributata nel Duecento ai culti mariani.

La Madonna Rucellai di Duccio è più aristocratica e raffinata. I volti di tutti i personaggi, sebbene ancora enigmatici, sono più dolci e gentili, secondo un distacco dall'opera di Cimabue che non era ancora evidente nell'antica Madonna Gualino di Duccio (1280-1283), divenendo percettibile nella Madonna di Crevole (1283-1284) e che in questa opera del 1285 diventa più evidente: la Vergine sembra quasi abbozzare un sorriso. Ciò dà all'immagine un senso di maggiore aristocraticità, innestata sulla solida maestosità e l'umana rappresentazione di Cimabue.



Con tutta probabilità Duccio ebbe come ispirazione anche gli oggetti quali smalti, miniature e avori provenienti dalla Francia, di sapore innovativamente gotico. Sono molti infatti gli elementi di stile gotico presenti nell'opera: mancano le lumeggiature dorate dell'agemina, sostituite da delicate modulazioni di colore e pieghettature spesso cadenti che danno sostanza alle figure. Inoltre Duccio vi immise un nervoso ritmo lineare, come sottolineato dal capriccioso orlo dorato della veste di Maria, che disegna una complessa linea arabescata che va dal petto fino ai piedi, in opposizione alle rigide e astratte pieghe a zig zag della pittura bizantina. La gamma cromatica è ricca e varia, come già andava conquistando la scuola senese, e conta colori che si esaltano a vicenda come il rosa smalto, il rosso vinato e il blu chiaro. Le aureole della Madonna e del Bambino sono decorate da raffinati motivi che creano un'aura di impalpabile trasparenza. 



I sei angeli che circondano la Madonna sono perfettamente simmetrici (forse dipinti tramite sagome cartonate, i cosiddetti "patroni") e stanno irrealisticamente inginocchiati uno sopra l'altro ai lati del trono, senza una minima sensazione di piani in profondità, come in Cimabue. Del resto anche nel trono sono più curati i decori preziosi, con bifore e trifore gotiche e con il sontuoso drappo di seta sullo schienale.

La cornice modanata ha un ruolo fondamentale nella composizione, ribadito dal recente restauro. Essa è in parte d'oro e in parte dipinta, con una fascia interrotta da clipei con busti di profeti biblici e santi domenicani, tra i quali il fondatore dei Laudesi san Pietro Martire. Queste figure, pur nelle dimensioni ridotte, presentano una notevole distinzione nelle singole fisionomie.

Da Wikipedia: Madonna Ruccelai



Bibliografia

Enzo Carli, Duccio, Milano 1952
Enio Sindona, Cimabue e il momento figurativo pregiottesco, Rizzoli Editore, Milano, 1975. ISBN non esistente
Luciano Bellosi, voce Duccio in Enciclopedia dell'Arte Medioevale vol. V, Roma 1994
Luciano Bellosi, Duccio. La Maestà, Milano 1998
Pierluigi De Vecchi ed Elda Cerchiari, I tempi dell'arte, volume 1, Bompiani, Milano 1999.
Alessandro Bagnoli, Roberto Bartalini, Luciano Bellosi, Michel Laclotte, Duccio. Alle origini della pittura senese, Catalogo della mostra, Silvana Editore, Milano 2003.
AA. VV., Galleria degli Uffizi, collana I Grandi Musei del Mondo, Roma 2003.
Gloria Fossi, Uffizi, Giunti, Firenze 2004, pag. 112. ISBN 88-09-03675-1

Santo Stefano (Giotto)

Titolo dell'opera: Santo Stefano
Autore: Giotto
Anno di esecuzione: 1330 - 1335
Luogo: Firenze (Museo Horne)



Il Santo Stefano è un dipinto a tempera e oro su tavola (84x54 cm) di Giotto, databile al 1330-1335 circa e conservato nel Museo Horne a Firenze.

Per le misure e la forma della tavola l'opera era generalmente associata alla Madonna col Bambino della National Gallery di Washington e ai due santi del Museo Jacquemart-André di Chaalis, San Giovanni Evangelista e San Lorenzo, con i quali si pensava formasse in origine un polittico a cinque scomparti magari da identificare con uno di quelli ricordati dalle fonti in Santa Croce con un quinto pannello perduto.

Una parte della critica però registrava, oltre a lievi differenze nella forma della cornice, un evidente divario stilistico, soprattutto tra lo stradordinario Santo Stefano e le più povere tavole di Chaalis. Indagini recenti e più approfondite hanno definitivamente messo in luce come il pannello fiorentino sia però preparato a terra verde, mentre quelli francesi a terra rossa, per cui sicuramente di diversa provenienza.

La tavola del Santo Stefano è collocata nell'estrema fase produttiva del maestro, dopo le pitture della Cappella Bardi.

Santo Stefano, riconoscibile per i sassi sulla testa, allusione alla sua lapidazione, e per la dalmatica, è raffigurato a mezza figura, con una semplice aureola punzonata sullo sfondo oro uniforme. Figura di estrema eleganza, è rivolto a destra e regge, con una mano affusolata e geometrica, un libro rosso rilegato con decorazioni ad oro zecchino. Il disegno appare prezioso, il colore ricercatissimo. Finissima è la veste, con straordinari ricami al collo, al petto, ai bordi lungo le spalle e ai polsi. Un lembo di tessuto, dallo fodera rossa, iridescente di riflessi dorati, copre per metà il libro e ricade pesantemente verso il basso, con pieghe molto realistiche.


Da Wikipedia: Santo Stefano (Giotto)

Bibliografia:
Maurizia Tazartes, Giotto, Rizzoli, Milano 2004. ISBN non esistente
Edi Baccheschi, L'opera completa di Giotto, Rizzoli, Milano 1977. ISBN non esistente