Visualizzazione post con etichetta Cimabue. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Cimabue. Mostra tutti i post

Biografie: Maestro Oltremontano

Il cosiddetto Maestro Oltremontano, o d'Oltralpe (... – ...), è stato un pittore anonimo forse francese attivo nella basilica superiore di Assisi verso la fine del XIII secolo.

Opere

Lavorò nel transetto destro della basilica superiore di Assisi più o meno contemporaneamente a Cimabue, occupandosi della parte superiore. Per il suo stile più spiccatamente gotico, forse francese o inglese, è stato in seguito chiamato dalla critica "Maestro Oltremontano".

A lui sono attribuite i due lunettoni (Trasfigurazione e San Luca inginocchiato accanto a un trono), la loggetta sinistra (con busti di angeli entro clipei e grandi figure di santi e profeti a piena figura dietro le colonnine), e i paramenti decorativi (magari affidati a maestranze di bottega) presenti nei sott'archi dei lunettoni, della vetrata, e dei costoloni, con motivi vegetali e geometrici. Inoltre alcuni gli attribuiscono le fasce decorative della volta, in particolare i mascheroni vicini agli innesti sui pilastri, e i resti delle due grandi figure entro nicchie (Isaia e David) ai lati della vetrata alla testata del transetto, sormontate da due rosoni dipinti.

La loggetta destra invece viene per lo più attribuita a un maestro romano.

Battistero: San Giovanni (Firenze)

Titolo dell'opera: Battistero di San Giovanni
Autore: n.n.
Anno di esecuzione: XI Secolo
Luogo: Firenze


Il battistero dedicato a san Giovanni Battista, patrono della città di Firenze, sorge di fronte al duomo di Santa Maria del Fiore, in piazza San Giovanni.

Inizialmente era collocato all'esterno della cerchia delle mura, ma fu compreso, insieme al duomo, nelle mura realizzate da Matilde di Canossa ("quarta cerchia"). In origine era circondato da altri edifici, come il palazzo Arcivescovile che arrivava molto più vicino, i quali vennero abbattuti per creare l'attuale piazza.

Il battistero si trova fra piazza del Duomo e piazza San Giovanni, fra il duomo e l'arcivescovado, nel centro religioso della città. La facciata principale dell'edificio ottagonale è rivolta verso il duomo, mentre l'abside si trova verso ovest.

Origini del complesso
Le origini del monumento fiorentino costituiscono uno dei temi più oscuri e discussi di tutta la storia dell'arte. Fino al cinquecento si seguiva l'antica tradizione fiorentina secondo cui esso sarebbe stato in origine un tempio di Marte, modificato nel medioevo solo nell'abside e nella lanterna. Nei secoli seguenti invece questa idea fu gradualmente abbandonata, anche perché alla fine dell'ottocento scavando sotto di esso apparvero i resti di domus romane, probabilmente del I secolo d.C., con pavimenti a mosaico a motivi geometrici. Si ritenne quindi che ciò dimostrasse l'origine medievale del monumento, e su questo presupposto si basano la maggior parte delle teorie attuali,che ipotizzano una data di fondazione intorno al IV-V secolo d.C, oppure intorno al mille, forse con rimaneggiamenti avvenuti tra il VII secolo durante la dominazione longobarda e l'XI, quando il Battistero fu consacrato da papa Niccolò II il 6 novembre 1059. Queste spiegazioni restano però ancora discusse, e va anche detto che negli ultimi anni è stata avanzata l'ipotesi che le tradizioni fiorentine avessero sostanzialmente ragione, e che l'edificio sia stato eretto in ricordo della vittoria di Stilicone su Radagaiso, avvenuta a Firenze nel 406, e poi trasformato in chiesa. Del fatto di guerra sarebbe rimasto il ricordo nel nome popolare di "Tempio di Marte". In questo caso i reperti romani degli scavi andrebbero spiegati non come resti di devastazioni barbariche ma come demolizioni eseguite proprio per costruire l'edificio.

La prima citazione del Battistero risale all'anno 897, quando l'inviato dell'imperatore rende giustizia sotto il portico "davanti alla chiesa di San Giovanni Battista": quindi il termine "chiesa" fa capire che a quella data l'edificio era officiato, anche se non si sa se avesse già le funzioni di battistero. Comunque sia, il papa fiorentino Niccolò II lo consacrò il 6 novembre 1059, probabilmente dopo vari lavori di restauro.

Nel 1128 l'edificio diventò ufficialmente battistero cittadino e intorno alla metà dello stesso secolo venne eseguito un rivestimento esterno in marmo, successivamente completato anche all'interno; il pavimento, sempre in tarsie marmoree, viene realizzato nel 1209.
Secondo alcuni la cupola sarebbe stata realizzata nella seconda metà del XIII secolo, ma di ciò non esiste nessun documento, e tecnicamente l'ipotesi è assai discussa.

I mosaici della scarsella risalgono verso il 1220 e successivamente fu eseguito il complesso mosaico della cupola a spicchi ottagonali, al quale si lavora tra il 1270 e il 1300, con l'intervento di frate Jacopo e la partecipazione di Coppo di Marcovaldo e di Cimabue.

Tra il 1330 e il 1336 viene eseguita la prima delle tre porte bronzee, con l'utilizzo di 24 formelle, commissionata ad Andrea Pisano dall'Arte di Calimala, l'arte più antica dalla quale discendono tutte le altre, sotto la cui tutela era il battistero: essa era di fatto in competizione con l'Arte della Lana che patronava invece il vicino duomo. La porta, forse inizialmente collocata sul lato est, il più importante, di fronte al Duomo, fu spostata sul lato sud per collocare al posto d'onore la seconda porta: tale notizia, riportata dal Vasari e ripresa un po' da tutte le fonti fino ad oggi, è stata messa recentemente in dubbio per discrepanze nelle misure tra le due aperture. Verso il 1320 inoltre Tino di Camaino aveva scolpito tre gruppi scultorei entro nicchie per decorare la parte sopra i portali di ciascun ingresso: consumate dalle intemperie vennero poi gradualmente sostituite dalla fine del Quattrocento in poi: la maggior parte dei frammenti è oggi nel Museo dell'Opera del Duomo.

Quest'ultima, tra il 1401 e il 1424, venne realizzata da Lorenzo Ghiberti, vincitore di un concorso a cui parteciparono anche Filippo Brunelleschi, Jacopo della Quercia, Simone da Colle Val d'Elsa, Niccolò di Luca Spinelli, Francesco di Valdambrino e Niccolò di Pietro Lamberti. Inizialmente collocata sul lato orientale, fu a sua volta poi spostata sul lato nord. Nel corso del restauro iniziato nel 2013 si è scoperto, pulendo le formelle, che le figure dei bassorilievi sono dorate, tramite doratura ad amalgama di mercurio su base bronzea.

La terza porta, con formelle interamente rivestite d'oro, eseguita sempre dal Ghiberti tra il 1425 e il 1452 e chiamata da Michelangelo "Porta del Paradiso", tuttora occupa il lato orientale. Per la realizzazione delle due porte, il Ghiberti creò una vera e propria bottega di bronzisti, nella quale si formarono artisti come Donatello, Michelozzo, Masolino e Paolo Uccello.

Nel 1576, in occasione del battesimo dell'atteso erede maschio del granduca Francesco I de' Medici, Bernardo Buontalenti ricostruì il fonte battesimale, distruggendo i battezzatoi medievali ricordati da Dante Alighieri (Inf. XIX vv. 16-20), nonché il coro che era nell'abside.

Il battistero fiorentino era luogo di investitura di cavalieri e poeti, come ricorda Dante Alighieri nel Paradiso (XXV, 7-9): "con altra voce omai, con altro vello / ritornerò poeta, e in sul fonte / del mio battesmo prenderò 'l cappello". Era sede deputata per solenni giuramenti, nonché per la celebrazione in onore del patrono cittadino con il dono delle stoffe pregiate (i palii) da parte dei magistrati del Comune nella ricorrenza del Battista (24 giugno).

Esterno

Ha pianta ottagonale, con un diametro di 25,60 m, quasi la metà di quello della cupola del Duomo. L'ottagono è già figura tipica dei battisteri, soprattutto medievali e di ispirazione bizantina, di cui l'ipotesi più probabile è quella di ricordare l'"ottavo giorno" della settimana, che nel Nuovo Testamento del Cristianesimo è simbolo di Resurrezione ed Eternità.
La necessità di un edificio di vaste dimensioni si spiega con l'esigenza di accogliere la folla che riceveva il battesimo solo in due date prestabilite all'anno. Anticamente era sopraelevato di alcuni gradini, scomparsi con l'innalzamento graduale del piano del calpestio, che Leonardo da Vinci aveva pensato di ricreare studiando un modo per sollevare in blocco l'edificio e ricreare una nuova piattaforma.

L'edificio è coperto da una cupola ad otto spicchi, mascherata all'esterno dall'attico e coperta da un tetto a piramide schiacciata. Sul lato opposto all'ingresso sporge il corpo dell'abside rettangolare (scarsella).

L'ornamento esterno, in marmo bianco di Carrara e verde di Prato, è scandito da tre fasce orizzontali, ornate da riquadri geometrici, quella mediana occupata da tre archi per lato, nei quali sono inserite superiormente finestre con timpani. Il pilastri in marmo verde del registro inferiore corrispondono colonne poligonali in strisce bianche e nere in quello superiore, reggenti gli archi a tutto sesto. I pilastri angolari, originariamente in pietra serena, furono poi rivestiti pure di marmo. Si tratta di uno spartito di gusto classico, usato già in altri monumenti romanici come la facciata di San Miniato al Monte, che testimonia il perdurare a Firenze della tradizione architettonica della Roma antica.

Nonostante il battistero sia considerato la matrice del “Romanico fiorentino”, alcune caratteristiche della sua architettura non hanno riscontro altrove. La disposizione di colonne e capitelli – differenziati per tipologia e per colore del marmo – non è né uniforme né casuale, ma come nella architetture della Tarda antichità è finalizzata a indicare precise gerarchie spaziali. All’interno l’asse principale est-ovest è indicato dal contrapporsi dell’arcone e della coppia di colonne con capitelli compositi ai lati della Porta del Paradiso (in tutti gli altri casi abbiamo invece capitelli corinzi, eccetto uno probabile frutto di restauro); un secondo asse di simmetria obliquo sudest-nordovest è invece indicato dai fiori dell’abaco dei capitelli corinzi di pilastro, che sono di tre tipi differenti. All’esterno le finestre a edicola si differenziano per forma, tipo di capitelli e colonne, e colore dei marmi impiegati, secondo un ordinamento molto complesso che distingue i lati obliqui da quelli volti ai punti cardinali e tra questi il lato est, con l'ingresso principale, differenziato in tutto dagli altri. La disposizione simmetrica di differenti tipi di capitelli si riscontra anche nei tre lati volti a sud dell’attico, verosimilmente eseguiti per primi perché rivolti alla città.

Le tre porte bronzee, realizzate secondo un programma figurativo unitario nell'arco di più di un secolo, mostrano la storia dell'umanità e della Redenzione, come in una gigantesca Bibbia figurata. L'ordine narrativo, sconvolto dal cambiamento di posizione delle singole porte, va dalle Storie dell'Antico Testamento nella porta est, a quelle del Battista nella porta sud, fino a quelle del Nuovo Testamento (Storie di Cristo) nella porta nord


L'interno è a pianta ottagonale, con un diametro di 25,6 metri. La decorazione interna è ispirata agli edifici romani, come il Pantheon, con un ampio uso di specchiature marmoree policrome. È suddivisa, come all'esterno, in tre fasce orizzontali, la più alta però coperta dalla cupola, mentre la fascia mediana è occupata dai matronei. Inferiormente le pareti sono suddivise verticalmente in tre zone per mezzo di lesene e di colonne monolitiche in granito e in marmo cipollino di spoglio (come gran parte dei marmi del rivestimento), con capitelli dorati che reggono l'architrave. Le pareti, tripartite da colonne e raccordate agli angoli da doppi pilastri scanalati in marmo, presentano un rivestimento marmoreo a due colori alternati in fasce e altre forme, bianco di Carrara e verde di Prato. Sopra le bifore si trovano tarsie geometriche, databili a prima del 1113, a giudicare dall'iscrizione sul sarcofago del vescovo Ranieri.

La fonte battesimale in origine occupava il centro del pavimento, dove si trova un ottagono in cocciopesto. Il pavimento presenta tarsie marmoree di grande pregio, di gusto orientalizzante, con motivi geometrici, fitomorfi e zoomorfi spesso legati ad animali di fantasia, ispirati ai tessuti provenienti dal Mediterraneo meridionale e orientale. Essi furono realizzati in tutta probabilità dalle stesse maestranze che lavorarono anche, fino al 1207, in San Miniato al Monte. Dal 1048, su iniziativa di Strozzo Strozzi, esisteva nel battistero un orologio solare: attraverso un foro praticato nella cupola, i raggi solari colpivano nel corso dell'anno i segni dello zodiaco su una lastra di marmo collocata presso la porta nord, il riquadro zodiacale che oggi è in corrispondenza della porta est, in seguito al rifacimento del XIII secolo. Sulla lastra è riportato il verso palindromo "en giro torte sol ciclos et rotor igne".

Un'altra caratteristica del battistero che non ha riscontri nell’architettura romanico-gotica è la relazione architettonica tra le facciate, che – sia all’interno che all’esterno – non sono raccordate da nodi strutturali (gli attuali pilastri bicolori esterni sono un rifacimento: in origine erano in arenaria e separavano le facciate contigue incrostate di marmi), ma sono invece intese come unità bidimensionali indipendenti e solo accostate – all’interno addirittura separate da un vuoto angolare – in modo da esaltare l’architettura del battistero come puro solido geometrico.

Dante cita il battistero nella sua Divina Commedia: nel XIX canto dell'Inferno:

Non mi parean [i fori] men ampi né maggiori /che que' che son nel mio bel San Giovanni, /fatti per loco de' battezzatori (versi 16-18). Egli inoltre dice che una volta, per salvare un ragazzo che rischiava di affogare, fu costretto a rovesciare una delle pozze dove si battezzavano i fanciulli, rompendone il bordo. Questa frattura, secondo i cronisti fiorentini, era ancora visibile quando le fonti battesimali vennero distrutte nel 1576.
L'altare è neoromanico e venne creato da Giuseppe Castellucci ai primi del Novecento recuperando frammenti originali e sostituendo il precedente altarone barocco di Girolamo Ticciati (1732, oggi nei depositi del Museo dell'Opera del Duomo). Davanti all'altare una grata lascia intravedere i sotterranei, in cui si trovano gli scavi della domus romana con pavimenti a mosaici geometrici, venuta alla luce durante gli scavi del 1912-1915.

Mosaici


Il rivestimento a mosaico della cupola fu impresa difficile e dispendiosa; i lavori iniziarono forse intorno al 1270 e si conclusero agli inizi del secolo successivo.

Presenta otto spicchi ed è rivestita da mosaico su fondo dorato. Su una fascia superiore sono raffigurate le gerarchie angeliche (2 nello schema) Su tre degli spicchi (1 nello schema) è raffigurato il Giudizio Universale, dominato dalla grande figura del Cristo: sotto i suoi piedi avviene la resurrezione dei morti, alla sua destra i giusti sono accolti in cielo dai patriarchi biblici, mentre alla sua sinistra si trova l'inferno con i suoi diavoli.

Gli altri cinque spicchi sono suddivisi in altri quattro registri orizzontali, dove sono raffigurate a partire dall'alto: storie della Genesi (3), storie di Giuseppe (4), storie di Maria e di Cristo (5) e storie di San Giovanni Battista (6).

Furono impiegate, secondo alcuni, maestranze veneziane, coadiuvate sicuramente da importanti artisti locali che fornirono i cartoni, come Coppo di Marcovaldo, autore dell'Inferno, Meliore per alcune parti del Paradiso, il Maestro della Maddalena e Cimabue, cui sono attribuite le prime storie del Battista.

Altre opere

All'interno si trovano due sarcofagi romani: uno detto "della fioraia", da un soggetto del bassorilievo, dove venne sepolto il vescovo Giovanni da Velletri, e uno con scena di caccia al cinghiale, con un coperchio cinquecentesco con stemma Medici aggiunto quando venne reimpiegato come sepoltura di Guccio de' Medici, gonfaloniere di Giustizia nel 1299. Tra questi sarcofagi si trova un statua del Battista di Giuseppe Piamontini (1688 circa) donata da Cosimo III de' Medici. Sulla parete destra dell'abside si conserva il monumento funebre del vescovo Ranieri, costituito da un sarcofago con un'iscrizione del 1113 in esametri leonini.

A destra dell'abside il monumento funebre dedicato a Baldassarre Cossa, l'antipapa Giovanni XXIII, morto a Firenze nel 1419, eseguito da Donatello e Michelozzo tra il 1422 e il 1428. L'angelo reggicandela a destra dell'altare, posto su una colonnina con base leonina, è di Agostino di Jacopo e risale al 1320. Il candelabro per il cero pasquale è pure attribuito allo stesso autore. Ai lati delle porte tre coppie di acquasantiere su colonne tortili. Il fonte battesimale, fatto principalmente di un unico blocco marmoreo, è attribuito a un seguace di Andrea Pisano (1371) e mostra sei bassorilievi con Scene di battesimo.

Vi era esposta anche la Maddalena penitente, scolpita da Donatello in legno. Danneggiata nell'alluvione del 1966 l'opera è attualmente esposta nel Museo dell'Opera del Duomo. Perduto è invece l'affresco con San Giovanni al di sopra della porta sud, opera del 1453 di Alesso Baldovinetti. Per il battistero erano stati realizzati inoltre l'altare argenteo e il Parato di San Giovanni (su disegno di Antonio del Pollaiolo), tutte opere al museo dell'Opera.

Da Wikipedia: Battistero San Giovanni


Bibliografia

  • Piero Degl'Innocenti: Le origini del bel San Giovanni. Da tempio di Marte a battistero di Firenze, Edizioni Cusl, Firenze 1994. ISBN 88-8021-037-8; ristampa: Libreria Alfani Ed., Firenze 2014, ISBN 978-88-88288-26-0
  • Rolf C. Wirtz: Florenz. Könnemann, Köln 1999. ISBN 3-8290-2659-5
  • Gerhard Straehle: Die Marstempelthese - Dante, Villani, Boccaccio, Vasari, Borghini. Die Geschichte vom Ursprung der Florentiner Taufkirche in der Literatur des 13. bis 20. Jahrhunderts, Gerhard Straehle, München 2001. ISBN 3-936275-00-9
  • Giuseppe Marchini Langewiesche: Baptisterium, Dom und Dommuseum in Florenz, K.R. Langewiesche, Königstein im Taunus 1980. ISBN 3-7845-6130-6
  • Annamaria Giusti: Das Baptisterium San Giovanni in Florenz, Mandragora, Florenz 2000. ISBN 88-85957-57-9
  • Carlo Montrésor: Das Museum der Opera del Duomo von Florenz, Schnell & Steiner, Regensburg/Florenz 2000, 2003. ISBN 3-7954-1615-9
  • Alberto Busignani – Raffaello Bencini: Le chiese di Firenze. Il Battistero di San Giovanni, Firenze 1988.
  • AA.VV., a cura di Domenico Cardini: Il Bel San Giovanni e Santa Maria del Fiore. Il Centro religioso di Firenze dal Tardo Antico al Rinascimento, Firenze 1996. ISBN 88-7166-282-2
  • Guglielmo De Angelis D’Ossat: “Il Battistero di Firenze: la decorazione tardo romana e le modificazioni successive”, IX Corso di cultura sull’arte ravennate e bizantina, Ravenna 1962.
  • AA.VV., Guida d'Italia, Firenze e provincia "Guida Rossa", Touring Club Italiano, Milano 2007.
Copyright. In questa pagina:

Cimabue - Volta dei quattro Evangelisti

Titolo dell'opera: Volta dei quattro Evangelisti
Autore: Cimabue
Anno di esecuzione: 1277 - 1280
Luogo: Assisi (Basilica Superiore)


La Volta dei quattro Evangelisti è un affresco (circa 900x900 cm) di Cimabue, databile attorno al 1277-1283 circa e conservata nella basilica superiore di San Francesco di Assisi. Si tratta della volta al centro del presbiterio.

La datazione degli affreschi di Cimabue è piuttosto discorde, sebbene negli studi più recenti si sia assestata a un periodo tra il 1277, anno dell'elezione al soglio pontificio di Niccolò III (il cui stemma Orsini si trova nella rappresentazione simbolica di Roma nella vela dell'evangelista Marco), e il 1283 circa.

A differenza delle rovinate scene delle pareti, la volta mantiene nella maggior parte della superficie i rapporti originali tra zone chiare e scure, grazie a un'ossidazione della biacca minore o assente.

Lo spicchio con San Matteo crollò nel terremoto del 26 settembre 1997, ed oggi è stato ripristinato per quanto possibile cercando di recuperare gli elementi superstiti originali.


La volta degli Evangelisti è il nodo dell'intera decorazione della basilica, poiché da ciascun Vangelo si dipana idealmente la rappresentazione delle varie scene del transetto, dell'abside e della navata. Ogni vela è occupata da uno degli evangelisti, rappresentati secondo uno schema fisso, in cui ciascuno è in atto di scrivere, ispirato da un angelo che piove dall'alto. Il loro scranni occupano la metà sinistra di ciascuna vela, mentre quella destra è decorata da una veduta della regione evangelizzata: Matteo, la Giudea (Iudea); Giovanni, l'Asia; Luca, la Grecia (Ipnacchaia, cioè l'Acaia); Marco, l'Italia (Ytalia). Sia gli evangelisti che le regioni geografiche sono identificate da scritte a chiare lettere. Le regioni sono rappresentate da una sintetica rappresentazione architettonica delle loro città principali, rispettivamente Gerusalemme, Efeso, Corinto e Roma. Le città possono essere anche considerate come una notazione spaziale precisa, legata al luogo in cui ciascun Vangelo fu scritto, ed alludono inoltre alla dimensione universale del messaggio cristiano in generale e francescano in particolare.

Lo sfondo delle vele era un tempo oro, oggi in larga parte perduto rendendo visibile la preparazione bianca sottostante.

I modi bizantini delle figure, di grande eleganza ma ormai arrivati al capolinea di uno sterile intellettualismo, sono qui aggiornati alla ricerca di forme più piene, con un evidente mutamento d'indirizzo ispirato alle opere romaniche, all'arte classica e al neoellenismo di alcune correnti bizantine più originali.


I buchi che forano qua e là la superficie furono anticamente usati per appendere lucernari.

San Matteo

Per aderire alla forma triangolare della vela, in questa come nelle altre scene, Cimabue dovette utilizzare delle vertiginose forzature, come l'inclinazione del seggio dell'evangelista verso il suo scrittoio, alla base del quale si trova il tipico simbolo dell'angelo. I rocchetti che si ritrovano in tutti i seggioloni (e anche nei troni delle Madonna cimabuesche) derivano dalla tradizione carolingia, nota oggi attraverso la miniatura. Piacevole è la posa dell'evangelista, con una mano scrivente e l'altra piegata verso il petto con naturalezza, fuoriscente dalla veste con una porzione del braccio per effetto del calare della manica con la gravità.

Un altro angelo, simbolo dell'ispirazione divina, si affaccia poi da un clipeo tra nuvolette al vertice della vela e distende un braccio verso la testa dell'evangelista a simboleggiarne l'ispirazione divina.

Molto curata è la rappresentazione degli strumenti del mestiere sul piano dello scrittorio, così come la presenza dei libri che si intravedono da uno sportello aperto sotto il mobile, in uno scomparto che simula la profondità spaziale. A destra la "Giudea" è rappresentata pure in maniera inclinata, senza un raccordo spaziale con la metà destra. In questa ipotetica Gerusalemme, murata come le altre città della serie con un porta a beneficio del lato dello spettatore, si riconosce un grosso tempio con un corpo a pianta centrale, circondato da una torre e da due loggette simmetriche: si tratta della basilica del Santo Sepolcro. Le varie sfaccettature dell'edificio sono trattate con un'attenzione alla diversa illuminazione, in modo da dare un risalto anche plastico.

San Giovanni

La figura di Giovanni è l'unica ad avere un'importazione diversa dalle altre: il suo scranno è al centro, vicino a un leggio, sotto il quale sta il simbolo dell'aquila. Lo scrittoio si trova invece calato nell'angolo sinistro, su un leggio più piccolo e con alcuni oggetti riposti negli scomparti interni, tra cui alcuni libri e delle ampolle. La diversa organizzazione fu tentata forse per rompere la rigida ripetizione e cercare di raccordare i vari oggetti in una concezione spaziale più coerente.

Davanti all'evangelista si trova una rappresentazione di Efeso come capitale dell'Asia. La città è l'unica con la porta sormontata da un archetto decorato all'orientale (forse un riferimento all'architettura araba) e con un'anta visibile e dischiusa. Vi si riconosce un frontone di un tempio antico, forse un riferimento al tempio di Artemide su cui era stata edificata la casa di Maria.

San Luca

La prospettiva della figura di Luca è particolarmente ardita, con l'evangelista chino sullo scrittorio il cui piano è ribaltato verso lo spettatore e appare vicino al bue accovacciato sul gradino al centro. Il volto di Luca è particolarmente convincente nel momento in cui il pensiero si concentra per effetto dell'ispirazione divina. Fu tra figure che ispirò un passo dell'abate Lanzi: «[Cimabue], fiero come il secolo in cui viveva, riuscì egregiamente nelle teste degli uomini di carattere, e specialmente dei vecchi, imprimendo loro un non so che di forte, e di sublime, che i moderni han potuto portare poco più oltre».

Otto Demus trovò una fonte abbastanza fedele all'evangelista cimabuesco in una miniatura del codice gr. 54 della Bibliothèque Nationale di Parigi (1250-1275 circa).

La rappresentazione di Corinto, con un grande edificio a pianta centrale, simboleggia la Grecia. Mario Salmi lesse nell'edificio una generica citazione delle cuspidi arnolfiane, che decorano il coronamento del deambulatorio. Anche qui, come nella Gerusalemme di san Matteo, gli edifici sono rappresentati con una predilezione per le sfaccettature geometriche illuminate in maniera diversa a seconda dell'angolazione.

San Marco

Marco, con uno schema simile a quello dei suoi colleghi, sta seduto su uno scranno presso uno scrittoio su cui è poggiato il suo Vangelo e, da uno sportello aperto, si intravedono altri oggetti. Vicino si trova rappresentato il leone alato, suo simbolo. L'evangelista è colto mentre guarda la punta della matita appena temperata.

Particolarmente interessante è la rappresentazione di Roma simboleggiante l'Italia, per il ricco numero di monumenti descritti che l'artista aveva probabilmente visto direttamente in occasione del suo soggiorno del 1272. Subito sotto la scritta Ytalia si vede ad esempio il Palazzo Senatorio del Campidoglio, dagli scudi con le scritte SPQR alternati aghli stemmi Orsini di Niccolò III o di un suo parente in carica (se ne contano circa otto in quegli anni). La basilica può essere o l'antica chiesa di San Pietro in Vaticano, o San Giovanni in Laterano, con un Cristo in trono tra la Madonna e san Giovanni sulla facciata, tracciati come una sorta di sinopia. Qualsiasi delle due basiliche papali sia è ininfluente ai fini del messaggio politico, legato all'accostamento col palazzo senatorio, e quindi delle cariche di pontefice e senatore dopo la cacciata di Carlo d'Angiò detenute da Niccolò III, suprema autorità religiosa e governatore di diritto della città. Si vedono poi la mole del Mausoleo di Adriano, edificio regalato dal pontefice al nipote Orso, la torre delle Milizie e il Pantheon. La chiesa porticata in basso a sinistra potrebbe infine essere i Santi Apostoli accanto al palazzo Colonna; altre interpretazioni, legate a quale edificio si intenda nella basilica soprastante, riferiscono questa chiesa anche come San Pietro e il palazzo Apostolico o San Giovanni e il palazzo del Laterano.

C'è un'altra lettura, per certi versi opposta, sulla presenza dello stemma Orsini sul palazzo Senatorio. Non apparendo su altri edifici ribadirebbe la carica di un senatore Orsini e non quella, più rilevante, del papato, e sarebbe da circoscrivere alla situazione romana dopo la morte di Niccolò III, quando gli scontri tra i partito guelfo (Orsini) e quello ghibellino dei sostenitori di Carlo d'Angiò (capeggiato dalla famiglia Annibaldi), che portò alla nomina del neutrale Martino IV nel 1280, il quale scelse prudentemente di risiedere per un po' in Viterbo. La preeminenza della torre delle Milizie, già degli Annibaldi, e la menzione della carica senatoria di Gentile Orsini (nel 1280), filofrancese, potrebbe essere letta come un omaggio a tale fazione.

Decorazioni

La decorazione dei costoloni e delle cornici delle vele è caratterizzata da motivi geometrici ben conservati, racemi, testine che appaiono tra foglie d'acanto, e alla base delle vele angeli telamoni che reggono vasi da cui si dipana la decorazione geometrico-vegetale. In qualche singolo brano (come alcune figure d'angelo) alcuni hanno ipotizzato la mano diretta del maestro, a cui spetta comunque l'ideazione generale.


Bibliografia

Eugenio Battisti, Cimabue, Milano, Istituto Editoriale Italiano, 1963.
Enio Sindona, Cimabue e il momento figurativo pregiottesco, Rizzoli Editore, Milano, 1975. ISBN non esistente

Cimabue - Crocifisso di San Domenico

Titolo dell'opera: Crocifisso di San Domenico ad Arezzo
Autore: Cimabue
Anno di esecuzione: 1265 circa
Luogo: Arezzo (San Domenico)



La somiglianza del crocifisso con quello bolognese di Giunta Pisano si spiega anche con un'esplicita richiesta dei domenicani aretini, essendo il crocifisso di Giunta conservato nella chiesa principale dell'ordine, la basilica di San Domenico a Bologna.

Da sempre conservato nella chiesa, il Crocifisso di Cimabue fu restaurato una prima volta nel 1917 e, più recentemente, nel 2005. Non è ricordato dalle fonti antiche e il primo a pubblicarlo fu Cavalcaselle nel 1875, che però lo attribuì a Margaritone d'Arezzo. Adolfo Venturi (1907) fu il primo a fare il nome di Cimabue, seguito con decisione dal Toesca (1927), che fu confermato da quasi tutti gli studiosi successivi.

La datazione si basa unicamente su dati stilistici e a poco sono valsi gli studi sull'origine della chiesa e del convento, che risultano fondati nel 1242 e ampliati in data imprecisata, probabilmente su impulso da Roma.






In questa opera Cimabue si orientò verso le recenti rappresentazioni della crocifissione con il Christus patiens, dipinte negli anni precedenti da Giunta Pisano e dal Maestro di San Francesco, ma aggiornò l'iconografia arcuando ancora maggiormente il corpo di Cristo, che ormai debordava occupando tutta la fascia alla sinistra della croce. Il corpo di Cristo, il tipo di panneggio e la decorazione della croce derivano da Giunta e la croce aretina potrebbe apparire come una semplice imitazione se non fosse per la particolare flessione, che si sforza di trovare un equilibrio fra realismo e intellettualismo, con effetto più dinamico ed espressivo, ma anche di geometrica purezza. Le linee di contorno accentuano la tensione muscolare del corpo ondeggiante. Il volume è accennato con più decisione, grazie al chiaroscuro intensificato.

Più dolce è il volto di Cristo, ottenuto con pennellate più sciolte e morbide, ma con uno stile ancora asciutto, quasi "calligrafico"; il colore è steso in un tratteggio sottile che imprime al corpo uno stacco dalla tavola. La smorfia di dolore è più realistica, in ossequio alle richieste degli ordini mendicanti. Il torace è segnato da una muscolatura tripartita, le mani appiattite sulla croce e i colori sontuosamente preziosi, sia per l'uso dell'oro che dello squillante rosso.

Un'altra novità rispetto al modello fu l'uso delle striature d'oro nel panneggio che copre il corpo di Cristo o nelle vesti dei due dolenti ("agemina"), un motivo introdotto da artisti come Coppo di Marcovaldo e derivato dalle icone bizantine.



Sempre ai modelli di Giunta rimandano le due figure nelle bandelle ai lati dei bracci della croce: Maria e San Giovanni raffigurati a mezzo busto in posizione di compianto, che guardando lo spettatore piegano la testa e l'appoggiano a una mano.

Nel tondo in alto (la cimasa aggiunta di un clipeo) è raffigurato il Cristo benedicente, opera di corredo probabilmente di un aiuto di bottega.



Bibliografia

Eugenio Battisti, Cimabue, Milano, Istituto Editoriale Italiano, 1963.
Enio Sindona, Cimabue e il momento figurativo pregiottesco, Rizzoli Editore, Milano, 1975. ISBN non esistente

Cimabue - Crocifissione

Titolo dell'opera: Crocifissione - Transetto sinistro
Autore: Cimabue
Anno di esecuzione: 1277 - 1280
Luogo: Assisi (Basilica superiore)



La Crocifissione del transetto sinistro è un affresco (circa 350x300 cm) di Cimabue e aiuti, databile attorno al 1277-1283 circa e conservato nella basilica superiore di San Francesco di Assisi. La scena è accoppiata simmetricamente alla Crocifissione del transetto destro, dall'altro lato.

Crocifissione - Transetto Destro
La datazione degli affreschi di Cimabue è piuttosto discorde, sebbene negli studi più recenti si sia assestata a un periodo tra il 1277, anno dell'elezione al soglio pontificio di Niccolò III e il 1283 circa. La zona del transetto sinistro è decorata dalle Storie apocalittiche.

Per questa scena, forse la più notevole dell'intero ciclo, non è mai stata messa in dubbio l'autografia del maestro.

Gli affreschi di Cimabue sono in generale in condizioni mediocri o pessime. Non fa eccezione questa Crocifissione, che dovette essere una delle scene più importanti dell'intero ciclo, e che oggi si presenta sfigurata da abrasioni (in parte colmate dall'ultimo restauro) e con i colori quasi invertiti in negativo, per l'ossidazione della biacca dei colori chiari, diventati oggi scuri. Nella zona inferiore esistono tuttavia alcuni brani coi colori originali ancora visibili.


Il Cristo


Cristo sulla Croce si erge al centro del dipinto, vistosamente inarcato verso sinistra, come nelle noti croci lignee sagomate di Cimabue. La metà superiore, celeste, è affollata d'angeli che manifestano tutto il loro dolore, volando in cerchio attorno al braccio breve della croce, coprendosi il viso piangente, alzando le mani al cielo, e raccogliendo pietosamente il sangue di Gesù con delle ciotole.
Questi angeli saranno tenuti ben presenti da Giotto nella sua celebre Crocifissione della Cappella degli Scrovegni. Il capo del Cristo è particolarmente dolente, proteso in avanti anziché adagiato del tutto sulla spalla come nelle croci di Arezzo e di Firenze. Le braccia non sono parallele alla croce, ma se ne distaccano significando tutto il peso del martirio in corso.






Gli astanti


Nella metà inferiore, terrestre, il ritmo è reso altamente tragico dal triangolo di linee di forza, dato dalle pose drammatiche delle due figure ai lati della croce, la Maddalena a destra che distende le braccia e un ebreo che allunga il braccio quasi a toccare il perizoma prolungato di Cristo, che simboleggia il riconoscimento della figura di divina di Cristo da parte di alcuni astanti. Addirittura la Maddalena solleva anche un ginocchio, come se volesse lanciarsi sulla croce accanto a Gesù. Scrisse Adolfo Venturi: «non è più il crocifisso con ai lati le figure simmetriche del portaspugna e del portalancia, né quello con le istorie del suo martirio su un cartellone! Nuova è la scena in cui il dolore e l'odio irrompono da anime forti, le grida contrastano roboanti, i sentimenti si urtano nella tempesta del cielo e della terra». Nella lunga coda del perizoma, una novità iconografica, si moltiplicano le pieghe e le scanalature, con una tendenza al realismo senza schematizzazioni, verso un recupero del classicismo.


Ai lati si distendono due gruppi di figure. Quello di sinistra mostra Maria con la mano al petto, nel gesto tipico del dolente, mentre Giovanni le prende la mano per prendersene cura da allora in poi, secondo un episodio narrato solo nel Vangelo di Giovanni. Seguono le tre Marie e una folla di personaggi in secondo piano, tra cui si riconoscono numerosi uomini col capo coperto, gli Ebrei.










A destra invece si mischiano soldati romani e ed ebrei, nelle loro espressioni di perplessità (c'è chi si tocca la barba) e di scherno, ma qualcuno accenna a un ripensamento, portando un dito alla bocca in segno di dubbio, e afferrandosi il polso per indicare l'impotenza. Uno addirittura si batte il petto in segno di pentimento, seguendo un passo del Vangelo di Luca (23, 47). Tra queste figure, il volto giovanile dietro al centurione è pressoché identico a un personaggio nell'Imposizione del nome al Battista nei mosaici del Battistero di Firenze (che per questo fu attribuita a Cimabue). L'ultimo volto a destra in prima fila è molto caratterizzato fisiognomicamente, a differenza degli altri, ed è stato ipotizzato che si tratti di un autoritratto del pittore.

Il pittore mise i personaggi uno dietro l'altro per dare idea di profondità, ma non seppe risolvere il conflitto di come essi poggiassero al suolo: ecco che i pochi piedi dipinti (solo per le figure in primo piano), si pestano uno sull'altro, come nei mosaici bizantini di San Vitale a Ravenna. I pochi colori originari superstiti, sopravvissuti proprio in questa zona, dimostrano una grande raffinatezza, che doveva da un effetto di delicata magnificenza: rosa, ocra, verde marcio, marrone. Qui dopotutto era in corso la realizzazione della "più straordinaria visione di forme e di splendori che artisti siano mai riusciti ad attuare" fino ad allora.

San Francesco


Alla base di questo triangolo sta rannicchiato san Francesco, che è riconoscibile dalle stimmate e che si bagna col sangue di Cristo che scorre sulla montagnola del Golgota fino al teschio nascosto di Adamo. Francesco appare qui come intermediario tra l'evento sacro e il fedele. La sua presenza è stata interpretata anche come simbolo delle tribolazioni dell'ordine francescano secondo le dottrine apocalittiche di Pietro Olivi e Gioacchino da Fiore, come a dire che far soffrire Francesco e i suoi seguaci è come crocifiggere il Cristo una seconda volta.


La questione di Longino

L'uomo che riconosce Cristo, col capo velato (quindi ebreo) impugna il bastone del comando ed ha già il nimbo di santo: difficile è capire se è per Cimabue san Longino, oppure se il fiorentino tenga distaccate le figure del centurione illuminato (per quanto ebreo) e di colui che trafisse Gesù con la lancia; dopotutto la raffigurazione esplicita del soldato con la lancia nella Crocifissione del transetto destro è priva di nimbo. Un uomo con la lancia compare però dietro di lui, e gli fa eco tenendo una posizione analoga col braccio disteso: è forse lui Longino o è un inserviente? Le altre due figure ai lati l'uomo con l'aureola, in un elegante contrapposto simmetrico, inoltre impugnano scudo e lancia: sembra che Cimabue abbia voluto disarmare quella figura per sottolinearne agiograficamente la virtù senza impacci guerreschi. Secondo Chiara Frugoni l'uomo in primo piano è san Longino (che non è infrequente trovare rappresentato ora come ebreo ora come romano), mentre l'uomo che gli fa eco è un altro ebreo che illustra il passo del Vangelo di Luca, in cui si descrive il pentimento di una parte degli Ebrei.

In ogni caso, ammettere un santo tra i giudei che furono responsabili della crocifissione di Cristo (secondo la tradizione anti-giudaica da san Giovanni in poi) rappresenta un'apertura verso il mondo giudaico fino ad allora senza precedenti, spiegabile forse con l'opera di redenzione ed evangelizzazione universale portata avanti dai Francescani. Duccio di Buoninsegna ad esempio, nella Crocifissione della Maestà del Duomo di Siena, copiò la figura del riconoscitore di Cristo da Cimabue, ma ne omise il nimbo, facendolo ripiombare nell'anonimato della folla tumultuante. A tale ipotesi di accoglienza francescana può legarsi anche scelta di includere la preminenza della figura della Maddalena, la prostituta pentita. Il messaggio di Cristo sembra così dare i suoi primi frutti già appena dopo la Crocifissione, con le prime conversioni spontanee, allargandosi poi idealmente nell'espansione della comunità credente attuata tramite gli Evangelisti, poi tramite la Chiesa e infine arrivando a Francesco, il "nuovo evangelista", raffigurato ai piedi della croce.

Appare quindi un messaggio di speranza, che può riscattare anche chi ha errato, invece di condannarlo insindacabilmente.

Duccio - Maestà Rucellai

Titolo dell'opera: Maestà Rucellai
Autore: Duccio di Buoninsegna
Anno di esecuzione: 1285
Luogo: Firenze (Galleria degli Uffizi)


La tavola è la più grande che ci sia pervenuta riguardo al Duecento e venne dipinta dal pittore senese, allora giovane e in patria straniera (Firenze e Siena erano due repubbliche diverse).

L'opera si ispira alla Maestà del Louvre di Cimabue, dipinta circa cinque anni prima, con la stessa disposizione del trono in tralice, la stessa inclinazione dei volti, i medesimi gesti della madre col figlio, la stessa impostazione della cornice. Il tema però è qui rappresentato con una nuova sensibilità, più "gotica", carico di ancora maggiore dolcezza nei volti e nella dolente umanità che supera i rigidi schematismi bizantini, facendo eco all'importanza tributata nel Duecento ai culti mariani.

La Madonna Rucellai di Duccio è più aristocratica e raffinata. I volti di tutti i personaggi, sebbene ancora enigmatici, sono più dolci e gentili, secondo un distacco dall'opera di Cimabue che non era ancora evidente nell'antica Madonna Gualino di Duccio (1280-1283), divenendo percettibile nella Madonna di Crevole (1283-1284) e che in questa opera del 1285 diventa più evidente: la Vergine sembra quasi abbozzare un sorriso. Ciò dà all'immagine un senso di maggiore aristocraticità, innestata sulla solida maestosità e l'umana rappresentazione di Cimabue.



Con tutta probabilità Duccio ebbe come ispirazione anche gli oggetti quali smalti, miniature e avori provenienti dalla Francia, di sapore innovativamente gotico. Sono molti infatti gli elementi di stile gotico presenti nell'opera: mancano le lumeggiature dorate dell'agemina, sostituite da delicate modulazioni di colore e pieghettature spesso cadenti che danno sostanza alle figure. Inoltre Duccio vi immise un nervoso ritmo lineare, come sottolineato dal capriccioso orlo dorato della veste di Maria, che disegna una complessa linea arabescata che va dal petto fino ai piedi, in opposizione alle rigide e astratte pieghe a zig zag della pittura bizantina. La gamma cromatica è ricca e varia, come già andava conquistando la scuola senese, e conta colori che si esaltano a vicenda come il rosa smalto, il rosso vinato e il blu chiaro. Le aureole della Madonna e del Bambino sono decorate da raffinati motivi che creano un'aura di impalpabile trasparenza. 



I sei angeli che circondano la Madonna sono perfettamente simmetrici (forse dipinti tramite sagome cartonate, i cosiddetti "patroni") e stanno irrealisticamente inginocchiati uno sopra l'altro ai lati del trono, senza una minima sensazione di piani in profondità, come in Cimabue. Del resto anche nel trono sono più curati i decori preziosi, con bifore e trifore gotiche e con il sontuoso drappo di seta sullo schienale.

La cornice modanata ha un ruolo fondamentale nella composizione, ribadito dal recente restauro. Essa è in parte d'oro e in parte dipinta, con una fascia interrotta da clipei con busti di profeti biblici e santi domenicani, tra i quali il fondatore dei Laudesi san Pietro Martire. Queste figure, pur nelle dimensioni ridotte, presentano una notevole distinzione nelle singole fisionomie.

Da Wikipedia: Madonna Ruccelai



Bibliografia

Enzo Carli, Duccio, Milano 1952
Enio Sindona, Cimabue e il momento figurativo pregiottesco, Rizzoli Editore, Milano, 1975. ISBN non esistente
Luciano Bellosi, voce Duccio in Enciclopedia dell'Arte Medioevale vol. V, Roma 1994
Luciano Bellosi, Duccio. La Maestà, Milano 1998
Pierluigi De Vecchi ed Elda Cerchiari, I tempi dell'arte, volume 1, Bompiani, Milano 1999.
Alessandro Bagnoli, Roberto Bartalini, Luciano Bellosi, Michel Laclotte, Duccio. Alle origini della pittura senese, Catalogo della mostra, Silvana Editore, Milano 2003.
AA. VV., Galleria degli Uffizi, collana I Grandi Musei del Mondo, Roma 2003.
Gloria Fossi, Uffizi, Giunti, Firenze 2004, pag. 112. ISBN 88-09-03675-1