Masaccio: Adorazione dei magi

Titolo dell'opera: Adorazione dei Magi
Autore: Masaccio
Anno di esecuzione: 1426
Luogo: Berlino (Musei statali)



La Adorazione dei Magi di Masaccio è una tempera su tavola (21x61 cm) proveniente dallo smembrato polittico di Pisa ed oggi conservato nei Musei statali di Berlino. Risale al 1426.

Destinato alla chiesa del Carmine per la cappella del notaio ser Giuliano di Colino degli Scarsi da San Giusto, il polittico di Pisa è l'opera meglio documentata di Masaccio, grazie a un committente particolarmente preciso, che annotò tutti i pagamenti e i solleciti fatti al pittore.

Il 19 febbraio 1426 l'artista era a Pisa a siglare il contratto e, dopo vari solleciti e richieste a impegnarsi in esclusiva all'opera, il 26 dicembre Masaccio riceveva il saldo per l'opera.

Entro il 1568 Giorgio Vasari lo vide e lo descrisse nella seconda edizione delle Vite. Nel corso del XVII o XVIII secolo venne rimosso dall'altare, smembrato e disperso.

I tre pannelli della predella si trovano tutti a Berlino, anche se vennero acquisiti in date diverse. I due pannelli dell'Adorazione dei Magi e dei Martiri di Pietro e Giovanni Battista si trovavano nella collezione Capponi a Firenze quando vennero ceduti, nel 1880, al museo berlinese. Già registrati come opera del Pesellino, all'arrivo in Germania erano già stati correttamente attribuiti a Masaccio e al polittico pisano; le Storie di san Giuliano e san Nicola entrarono invece in collezione nel 1908, con attribuzione più incerta.


Fratelli Limbourg - Très riches heures del Duca di Berry (Mese di Gennaio)

Titolo dell'opera: Très riches heures del Duca di Berry
Anno di esecuzione: 1414 circa
Luogo: Musée Condé di Chantilly

Mese di Gennaio


Il mese di Gennaio, ambientato all'interno di un castello del duca, raffigura il giorno in cui era consuetudine scambiarsi doni. Jean de Berry, con indosso un brillante abito blu impreziosito da damascature dorate, siede alla sua ricca mensa splendidamente fornita, sulla quale due piccoli cani vagano liberamente. All'estrema destra della tavola è raffigurata una grande saliera in oro a forma di nave, menzionata negli inventari di corte come “le salière du pavillon”.

Dietro il duca, in un camino monumentale, s'intravede la fiamma del fuoco e, sopra tale camino, uno stendardo di seta rossa reca i motivi araldici del duca: fiordalisi dorati, racchiusi in tondi blu e circondati da cigni ed orsi, che stanno a simboleggiare l'amore del duca per una certa donna di nome Orsina. Nell'ampio arazzo oltre il camino sono raffigurati eserciti di cavalieri che sopraggiungono da un castello fortificato per attaccare il nemico; le poche parole decifrabili dai versi scritti nella parte superiore dell'arazzo sembrano indicare una rappresentazione della guerra di Troia come veniva immaginata nella Francia medioevale.

I numerosi giovani che s'assembrano attorno al duca potrebbero essere membri della sua famiglia o principi del suo seguito, mentre il prelato canuto ed abbigliato di rosso, che s'accinge a sedersi accanto al duca ringraziandolo di tale onore, è probabilmente un suo caro conoscente, identificabile nel vescovo di Chartres, il quale nei suoi libri scrisse dell'amicizia che lo legava al duca. Alle spalle del prelato alcuni nobili distendono le mani verso il calore del fuoco, mentre il dignitario di corte li esorta ripetendo «approche approche» [avvicinatevi, avvicinatevi], come indica la scritta sopra la sua testa. Seguono poi altre figure, tra cui un uomo, nel gruppo centrale, il cui berretto si ripiega sull'orecchio destro. Paul Durrieu ha ipotizzato che quello potesse essere un autoritratto di Pol Limbourg, ipotesi che è resa peraltro più accettabile se si pensa che lo stesso ritratto compare in altri due Libri d'ore miniati dai Limbourg: Les petites Heures (Parigi, Bibliothèque nationale de France) e Les belles Heures (New York, Metropolitan Museum, Cloisters Museums). Tale ipotesi potrebbe essere ulteriormente confermata identificando la donna a sinistra, seminascosta dal cappuccio dell'uomo che beve avidamente da una tazza, con la moglie di Pol, Gillette le Mercier, figlia di un cittadino di Bourges. I due giovani di spalle in primo piano (un pittore e uno scultore) che si servono dalla tavola imbandita completano questa vivace miniatura che ha il valore di un documento storico per la precisione con cui ricrea fedelmente il fasto degli abiti e della mensa, e le usanze, famigliari e raffinate insieme, della vita quotidiana alla corte di Jean de Berry.


Bibliografia

Luciano Bellosi, I Limbourg precursori di Van Eyck? Nuove osservazioni sui mesi di Chantilly, in «Prospettiva», 1975, n. 1.
M. Meiss e E. H. Beatson, The Belles Heures of Jean, Duke of Berry, New York, 1974.
Pietro Toesca, La pittura e la miniatura nella Lombardia, Torino, 1966.
C. Raymond, Giorni del Medioevo. Le miniature delle Très riches heures del duca di Berry, 2001.
Pierluigi De Vecchi ed Elda Cerchiari, I tempi dell'arte, volume 2, Bompiani, Milano 1999.

Das Goldenes Rössl

Titolo dell'opera: Das Goldenes Rössl
Autore: n.n.
Anno di esecuzione: 1404
Luogo: Altötting (Germania)



L'Ex voto di Carlo VI è un capolavoro dell'oreficeria tardogotica, conservato nel Tesoro della cattedrale-santuario ad Altötting in Germania. Si tratta di un insieme raffigurante la Madonna col Bambino adorata da Carlo VI in oro, smalto e pietre preziose, alto 62 cm e risalente al 1403-1404. A causa della realistica immediatezza del cavallino in smalto raffigurato in basso, l'ex voto è chiamato anche popolarmente Il cavallino bianco ("Weisses Rössl") o dorato ("Goldenes Rössl").

L'opera venne inizialmente commissionata da Isabella di Baviera come regalo per il marito Carlo per il capodanno 1404; in seguito venne donata al santuario di Altötting come ringraziamento di ex voto.

L'opera è uno dei migliori esempi della straordinaria ricchezza e perfezione formale raggiunta dall'oreficeria cortese dell'epoca. Prodotto a Parigi (ma alcuni ipotizzano anche a Milano), si compone di due registri: in basso, sotto una specie di porticato sorretto da pilsatrini, si trova lo scudiero del re, riccamente abbigliato, che guarda il cavallo bianco del sovrano, dalla straordinaria sellatura e bardature in oro; due rampe di scale simmetriche portano idealmente al piano superiore, dove sopra un altare si trova Maria e il Bambino incorniciata da una spettacolare cuspide d'oro, perle e pietre preziose, che richiama il tradizionale pergolato di rose mariano. La Madonna regge in mano un libro di salmi e nell'altra il Bambino, che sembra dimenarsi irrequieto. Ai suoi piedi si trovano tre bambini vestiti da cherichetti (Giovanni Battista, Giovanni Evangelista e Santa Caterina come fanciulli), uno con il calice eucaristico e l'altro che gioca con un agnello, un richiamo alla Passione di Cristo.

In ginocchio ai piedi dell'altare stanno Carlo VI, a sinistra, con le mani giunte, vestito col mantello coperto dai gigli di Francia, e dall'altra un paggio che tiene l'elmo del re, secondo il cerimoniale aristocratico che all'epoca rivestiva un'importanza fondamentale come mezzo di distinzione aristocratica nel generale emergere della borghesia.

Da Wikipedia: Ex voto di Carlo VI

Bibliografia

Stefano Zuffi, Il Quattrocento, Electa, Milano 2004.
Pierluigi De Vecchi ed Elda Cerchiari, I tempi dell'arte, volume 2, Bompiani, Milano 1999.

Chiese: Chiesa di Sant'Anastasia

Titolo dell'opera: Chiesa di Sant'Anastasia 
Autore: Altichiero da Zevio
Anno di esecuzione: 1370
Luogo: Verona


[...]
Subito a destra si può ammirare l'Adorazione, unica opera certa di Altichiero da Zevio in Verona. Nel dipinto, come un antico omaggio feudale, i nobili cavalieri s'inginocchiano davanti al trono della Vergine. Fu eseguito forse dopo il ritorno di Altichiero da Padova, poco prima del 1390, anche se alcuni studiosi lo datano al 1369, in base ad un documento ritrovato negli archivi veronesi.

L'affresco nella lunetta del sarcofago di Federico Cavalli è di Stefano da Zevio e risale alla prima metà del XV secolo.

Gli altri affreschi della cappella e cioè la Vergine con Gesù bambino, San Cristoforo e il Miracolo di sant'Eligio sono lavori di Martino da Verona, pittore comparso nel 1412.

A sinistra compare l'affresco con il Battesimo di Gesù, attribuito a Jacopino di Francesco, pittore bolognese della prima metà del XIV secolo, considerato uno dei padre della pittura padana.
[...]


Bibliografia


  • Arturo Scapini, La chiesa di santa Anastasia, Verona, Edizioni di Vita Veronse, 1954.
  • Giorgio Borelli (a cura di), Chiese e monasteri di Verona, Verona, Banca popolare di Verona, 1980, BNI 828559.
  • Giovanni Cappelletti, La Basilica di S. Anastasia, Verona, Edizioni di Vita Veronese, 1981, BNI 828558.
  • Gian Paolo Marchini, Santa Anastasia, Verona, Banca Popolare di Verona, 1982.
  • Caterina Giardini, Santa Anastasia - storia e guida della Chiesa di Sant'Anastasia in Verona, Verona, Associazione Chiese Vive, 2011.
  • Nicola Patria, Il canto della torre, Verona, 2013

Biografie: Bonino da Campione

Bonino da Campione (Campione d'Italia, 1325 circa – 1397 circa) è stato uno scultore italiano. Fra il 1350 ed il 1390 fu tra i grandi maestri della scultura gotica.
Lavorò, fra l'altro, al monumento funebre di Bernabò Visconti ed al monumento di Cansignorio della Scala (1374) a Santa Maria Antica in Verona.


Da Wikipedia: Bonino da Campione

Bibliografia


  • Calvi, Gerolamo Luigi (1859), Notizie sulla vita e sulle opere dei principali architetti scultori e pittori che fiorirono in Milano durante il governo dei Visconti e degli Sforza, Milano, v. I.
  • Gotthold Meyer, A. (1893), Lombardische Denkmäler des vierzehnten Jahrhunderts. Giovanni di Balduccio da Pisa und die Campionesen. Ein Beitrag zur geschichte der oberitalienischen Plastik, Stuttgart.
  • Lavagnino, Emilio (1936), Storia dell'arte medioevale italiana, Torino.
  • Lomartire, Saverio (2009), Comacini, Campionesi, Antelami, "Lombardi". Problemi di terminologia e di storiografia, in Atti del Convegno internazionale Els Comacini i l'arquitectura romanica a Catalunya Girona/Barcellona, 25-26 novembre 2005.
  • Merzario, Giuseppe (1893), I maestri Comacini. Storia artistica di mille duecento anni (600-1800), Milano, ed. G. Agnelli, v. I.
  • Porter, Arthur Kingsley (1917), Lombard Architecture, New Haven.
  • Ricci, Corrado (1957), Manuale di storia dell'arte, Bergamo.
  • Tea, Eva (1957) Medio Evo, Torino.
  • Tosca, Pietro (1951), Storia dell'arte italiana, Torino.
  • Touring Club Italiano (1964-1965), L'arte nel Medio Evo, Milano, 2 v.
  • Venturi, Adolfo (1936), Storia dell'arte italiana, Milano.

Guidoriccio da Fogliano all'assedio di Montemassi (Simone Martini?)

Titolo dell'opera: Guidoriccio da Fogliano all'assedio di Montemassi
Autore: Simone Martini?
Anno di esecuzione: 1330
Luogo: Siena (Palazzo Pubblico)


Guidoriccio da Fogliano all'assedio di Montemassi (detto anche Guidoriccio da Fogliano) è un grande affresco (968x340 cm) collocato nella Sala del Mappamondo del Palazzo Pubblico di Siena. È attribuito per tradizione a Simone Martini, che l'avrebbe dipinto nel 1330, ma una lunga controversia iniziata nel 1977 e il recente ritrovamento di disegni preparatori farebbero pensare a un rifacimento del Quattrocento.

L'opera mostra il comandante delle truppe senesi, Guido Ricci o Guidoriccio da Fogliano di Reggio Emilia, a cavallo, di profilo, mentre va all'assalto del Castello di Montemassi in Maremma nel 1328. Sullo sfondo, un paesaggio piuttosto realistico con montagne, un accampamento e le località teatro dei fatti.

Il dipinto mostra segni di ripetuti interventi, ridipinture e rifacimenti, messi ancor più in evidenza dal restauro conservativo effettuato da Giuseppe Gavazzi nel 1980.

In basso, all'interno di una cornice decorativa dipinta, si legge A(N)NO D(OMI)NI M.CCC.XXVIII.

L'attribuzione a Simone Martini parrebbe suffragata da un documento del 1330 in cui si dà mandato al maestro Simone di dipingere per sedici fiorini i castelli di Montemassi e Sassoforte appena acquisiti dalla Repubblica Senese; l'anno dopo riceverà otto fiorini d'oro per dipingere Arcidosso e Castel del Piano. Il documento cita il castello di Montemassi, ma non parla di un ritratto equestre di Guidoriccio.

Cattedrali: Santa Maria Nuova

Titolo dell'opera: Santa Maria Nuova
Autore: Guglielmo II il Buono (committente)
Anno di esecuzione: completata nel 1172 - 1267
Luogo: Monreale


Secondo una leggenda, Guglielmo II il Buono, succeduto al padre sul trono di Sicilia, si sarebbe addormentato sotto un carrubo, colto da stanchezza, mentre era a caccia nei boschi di Monreale. In sogno gli apparve la Madonna, a cui era molto devoto, che gli rivelò il segreto di una “truvatura” con queste parole: “Nel luogo dove stai dormendo è nascosto il più grande tesoro del mondo: dissotterralo e costruisci un tempio in mio onore”. Dette queste parole, la Vergine scomparve e Guglielmo, fiducioso della rivelazione in sogno, ordinò che si sradicasse il carrubo e gli si scavasse intorno. Con grande stupore venne scoperto un tesoro in monete d'oro che furono subito destinate alla costruzione del Duomo di Monreale, cui furono chiamati per la realizzazione maestri mosaicisti greco-bizantini (“i mastri di l'oru”) dell'interno.

La costruzione del grande tempio venne avviata nel 1172 e terminò nel 1267. Esso venne concepito dapprima come chiesa dell'annessa abbazia territoriale benedettina, indipendente dalla cattedra di Palermo. Nel 1178, l'abate Guglielmo ottenne che fosse eretta l'arcidiocesi metropolitana di Monreale e la chiesa abbaziale ne divenne la cattedrale.

Nei secoli successivi alla costruzione, la cattedrale subì alcune modifiche. Nel Cinquecento, su progetto di Giovanni Domenico Gagini e Fazio Gagini, venne costruito il portico lungo il fianco sinistro, mentre quello della facciata principale fu aggiunto nel XVIII secolo. Sempre nel Cinquecento fu realizzata gran parte del pavimento interno. Nel 1811 un incendio distrusse il soffitto, che fu ricostruito tra il 1816 e il 1837. In tale occasione vennero realizzati i nuovi stalli del coro in stile neogotico.

Guglielmo II offre la chiesa a Madonna con Bambino (Capitello del chiostro)


Da Wikipedia: Duomo di Monreale

Bibliografia

  • Gaetano Millunzi, Il Duomo di Monreale, Roma, Vivere In, 1986.
  • Giuseppe Oddo, "Decorazione a motivi geometrici-vol. I", Blurb 2014
  • Touring Club Italiano-La Biblioteca di Repubblica, L'Italia: Sicilia, Touring editore, 2004.

Chiese: Chiesa della Martorana

Titolo dell'opera: Chiesa della Martorana
Autore: n.n.
Anno di esecuzione: completata nel 1143
Luogo: Palermo

Come dimostrato da un diploma greco-arabo del 1143, da un'iscrizione greca all'esterno della facciata meridionale e dalla stessa raffigurazione musiva di dedicazione, la chiesa fu fondata nel 1143 per volere di Giorgio d'Antiochia, grande ammiraglio siriaco di fede ortodossa al servizio del re normanno Ruggero II dal 1108 al 1151. Costruita da artisti orientali secondo il gusto bizantino, si trovava nei pressi del vicino monastero benedettino, fondato dalla nobildonna Eloisa Martorana nel 1194, motivo per il quale diventò nota successivamente come "Santa Maria dell'Ammiraglio" o della "Martorana" (precedentemente Giorgio l'Antiocheno fece edificare anche il possente "Ponte Ammiraglio" sul fiume Oreto, noto anche per una battaglia dei garibaldini). All'edificio sacro, che nel corso dei secoli è stato più volte distrutto e restaurato, si accede dal campanile: una costruzione a pianta quadrata del XIII secolo, aperta in basso da arcate a colonne angolari e con tre ordini di grandi bifore.

La chiesa possiede una pianta a croce greca, prolungata con il nartece e l'atrio. Un portale assiale (ancora esistente) da sull'atrio e il nartece, come nelle prime chiese cristiane. Al di là del nartece, l'edificio era sistemato e decorato come una chiesa bizantina a 4 colonne, tranne gli archi a sesto acuto e i pennacchi della cupola che erano di gusto islamico. Nel 1193 le case attorno vengono adibite a Convento basiliano per le donne e la chiesa verrà poi ad esso inglobata. Attorno al 1394 avviene la fondazione del convento della Martorana (dal nome dei proprietari) che sarà ceduto ai Benedettini dalla corona d'Aragona e che darà poi il nome alla chiesa.

Nel XVI secolo la chiesa ortodossa cade in un periodo di abbandono, passando al rito latino. Negli anni 1683-1687, per adeguarla alle esigenze del nuovo rito, l'abside centrale viene distrutta e sostituita da una nuova abside rettangolare, progettata da Paolo Amato, e il prospetto meridionale viene abbattuto. Nel 1740 Nicolò Palma progetta un nuovo prospetto, secondo il gusto barocco dell'epoca.

Nel 1846 si realizza l'abbassamento del piano della piazza e viene realizzata la scalinata. In considerazione dell'alto valore artistico della chiesa, tra il 1870 e il 1873, su direzione dell'arch. Giuseppe Patricolo, si realizzò il suo restauro. Nell'intento di riportare la chiesa allo stato originario, furono staccati i marmi settecenteschi delle pareti laterali del presbiterio (di cui era prevista la distruzione) e fu accentuato il muro di chiusura originale. La chiesa venne riportata per gran parte al suo aspetto medievale originario eccetto che per la navata e per l'abside centrale. Della fine del XIX secolo la chiesa cadde in stato di abbandono, quindi sotto l'amministrazione civile-comunale, sino al ritorno al culto orientale nella prima metà del XX secolo per conto della comunità albanese di Sicilia. La chiesa assunse il titolo di San Nicolò dei Greci (per "greci" erano scambiate quelle popolazioni albanesi che, dal XV secolo in Italia e Sicilia, conservavano "rito greco"-bizantino, lingua, costumi, identità) dopo che l'omonima chiesa - degli albanesi in Palermo - fu distrutta nel secondo conflitto mondiale. Fu così che la chiesa ha ereditato anche la sede della secolare parrocchia bizantina italo-albanese. La chiesa è stata recentemente restaurata e la sede della parrocchia fu momentaneamente accolta nella chiesa del SS.mo Salvatore delle suore basiliane italo-albanesi in Palermo.


Oggi la chiesa di San Nicolò dei Greci non possiede un vero e proprio territorio parrocchiale, ma è il punto di riferimento per più di 15.000 fedeli albanesi d'Italia, gli arbëreshë, di rito greco-bizantino residenti nella città di Palermo.

[...] Entrati nel primo corpo della costruzione - rifacimento settecentesco con volte affrescate da Olivio Sozzi, Antonio Grano e Guglielmo Borremans - due decorazioni musive sul fronte del corpo originario raffigurano uno Ruggero II vestito da imperatore bizantino e incoronato re per mano di Gesù Cristo; l'altro la dedicazione della chiesa alla Vergine da parte dell'ammiraglio d'oriente Giorgio d'Antiochia, quest'ultimo rappresentato in umile atto di prostrazione dinanzi alla Madonna.[...]


Giorgio d'Antiochia
Ruggero II

Da Wikipedia: Chiesa della Martorana

La miniatura nell'epoca di Carlo il Calvo

Scena di dedica da parte dell'abate di San Martino a Tours, il conte Vivien
(Carlo il Calvo riceve dei monaci al Concilio di Tours)

La miniatura carolingia raggiunse il suo apogeo con Carlo il Calvo. Il lavoro di avvicinamento nei riguardi dei modelli antichi compiuto dallo scriptorium dell'abbazia di Tours giunse, sotto la guida dell'abate Adalardo (834-843) e del conte Viviano (843-851), agli esiti testimoniati dalla Prima Bibbia di Carlo il Calvo o Bibbia di Viviano (846), miniata da un artista che aveva avuto modo di visionare le novità provenienti da Reims, e dall'Evangeliario di Lotario. Il monastero di Tours fu distrutto dai Normanni nell'853 e il ruolo di sede dello scriptorium di corte di Carlo il Calvo venne ereditato dalla basilica di Saint-Denis dove si produssero verso l'870 opere riccamente miniate come il Codice aureo di Sant'Emmerano e la Bibbia di Saint-Paul. Il Codice aureo è così denominato per l'uso particolarmente esteso dell'oro, caratteristica che è stata messa in relazione con la metafisica della luce di matrice plotiniana, ripresa da Scoto Eriugena e destinata ad avere grande importanza nel pensiero medievale.


La Prima Bibbia di Carlo il Calvo detta anche Bibbia del conte Vivien o Bibbia Vivien è un manoscritto miniato del IX secolo della Bibbia riccamente miniato.
Il manoscritto consta di 423 fogli di pergamena.
L'opera fu commissionata dal conte Vivien abate laico dell'abbazia di Marmoutier a Tours e fu donata al re franco Carlo il Calvo nel 846, durante una sua visita al monastero. È la terza opera conosciuta uscita dallo scriptorium dell'abbazia dopo la Bibbia di Bamburgh e la Bibbia di Grandval Moutier.












Bibliografia

(DE) Florentine Mütherich e Joachim E. Gaehde, Karolingische Buchmalerei, München, Prestel, 1979, ISBN 3-7913-0395-3.
(DE) Pierre Riché, Die Welt der Karolinger, Stuttgart, Reclam, 1981.
(DE) Ernst Günther Grimme, Die Geschichte der abendländischen Buchmalerei, Köln, DuMont, 1988, ISBN 3-7701-1076-5.
Liana Castelfranchi Vegas, L'arte medievale in Italia e nell'occidente europeo, Milano, Jaca Book, 1993.
(DE) Hans Holländer, Die Entstehung Europas in Christoph Wetzel (a cura di), Belser Stilgeschichte, Stuttgart, Belser, 1993.
(DE) Karl Klaus Walther, Lexikon der Buchkunst und der Bibliophilie, München, Weltbild, 1995.
M. G. Ciardi Dupré Dal Poggetto, Miniatura in Enciclopedia dell' arte medievale, Roma, Istituto dell'enciclopedia italiana, 1997.
(DE) Christoph Stiegemann e Matthias Wemhoff, 799. Kunst und Kultur der Karolingerzeit, Mainz, P. von Zabern, 1999, ISBN 3805324561.
(DE) Kunibert Bering, Kunst des frühen Mittelalters, vol. 2, Stuttgart, Reclam, 2002, ISBN 3-15-018169-0.
(DE) Christine Jakobi-Mirwald, Karolinger und Ottonen in Das mittelalterliche Buch. Funktion und Ausstattung, Stuttgart, Reclam, 2004, ISBN 3-15-018315-4.
Ernst Kitzinger, Arte altomedievale, Torino, Einaudi, 2005.
(DE) Johannes Laudage, Lars Hageneier e Yvonne Leiverkus, Die Zeit der Karo, Darmstadt, Primus-Verlag, 2006, ISBN 3-89678-556-7.

Lamina di re Agilulfo

Titolo dell'opera: Lamina di re Agilulfo
Autore: n.n.
Anno di esecuzione: V secolo
Luogo: Firenze (Museo Nazionale del Bargello)


La Lamina di re Agilulfo, nota anche come Trionfo di re Agilulfo, è un manufatto in bronzo lavorato a sbalzo e dorato, di forma trapezoidale (il bordo inferiore presenta due rientranze semicircolari) che misura 18,9 cm in lunghezza e 6,7 cm in altezza, prodotto da orafi longobardi intorno al VII secolo, riproducente una scena di trionfo. Si trova ora conservata a Firenze nel Museo Nazionale del Bargello.

Resta il dubbio sulla natura e sulla funzione di tale lamina: storici e archeologi si dividono tra chi presuppone che essa sia il frontale di un elmo e chi invece rifiuta tale teoria, ipotizzando che la lamina fosse in realtà la decorazione di un oggetto prezioso, forse un reliquiario.

La lamina è stata interpretata come un manufatto prodotto in riferimento all'assedio di Roma del 593 che costrinse papa Gregorio Magno a versare trecento libbre d'oro per evitare il sacco della città, subendo l'imposizione di subordinazione dei vinti - che sotto l'aspetto religioso implicava un riconoscimento di superiorità dell'arianesimo.

Il reperto venne trovato presso le rovine di un castello nella Val di Nievole, sul confine che divideva il territorio longobardo da quello bizantino nel 593.

La lamina, lavorata a sbalzo, presenta una decorazione continua sull'intera superficie: al centro una figura riccamente vestita siede in trono, ripreso frontalmente con la mano destra in posizione di allocutio e con la sinistra stringete una spada; ai lati due guerrieri, bardati con armature dalla foggia barbarica, con elmi conici a spicchi coronati da un pennacchio, lance e scudi rotondi con umboni. Convergono verso il gruppo centrale (in maniera simmetrica) due vittorie alate - segno del tentativo di contaminatio tra arte longobarda e modelli classici -: entrambe impugnano con la mano che si rivolge al trono una cornucopia a forma di corno potorio, mentre nell’altra mano sostengono un labaro con la scritta "VICTVRIA" punzonata. Ciascuna vittoria precede un gruppo di due persone che sembrano uscire da una torre stilizzata (simbolo di una città): il primo (con le gambe genuflesse) compie un gesto di riverenza e di offerta, mentre il secondo porge al sovrano una corona sormontata da una croce.
La figura al centro è circondata dalla scritta punzonata "DN AG IL V REGI" ("Al signore re Agilulfo"), che identificherebbe il personaggio con Agilulfo, re longobardo dal 591 al 616; tuttavia, riguardo a tale identificazione sono stati sollevati dubbi, in quanto alcuni ritengono che la scritta sia una falsificazione operata nel corso del XIX secolo.

Le figure costruite in maniera paratattica, ovvero accostate senza tener conto della profondità spaziale, sembrano prive di peso, ma nonostante questo, i personaggi, dai volti volutamente espressionistici, tanto da assumere un carattere grottesco, sono rese con un modellato che ridà un certo senso plastico e, nella minuta descrizione dell'abbigliamento, rivela un intento naturalistico. La frontalità dei personaggi centrali e la distribuzione simmetrica delle figure sono caratteri di origine bizantina.

Da Wikipedia: Lamina di re Agilulfo


  • Bibliotheca Sanctorum, Roma 1966
  • Piero Adorno, L'Alto Medioevo in L'arte italiana, Firenze, D'Anna, 1992, Vol. 1, tomo II, pp. 558-579..
  • Giulio Carlo Argan, I primi secoli del Cristianesimo in Storia dell'arte italiana, 25ª ed., Firenze, Sansoni, 1992, Vol. 1, pp. 191-237., ISBN 88-383-0803-9.
  • Pierluigi De Vecchi, Elda Cerchiari, I Longobardi in Italia in L'arte nel tempo, Milano, Bompiani, 1991, Vol. 1, tomo II, pp. 305-317., ISBN 88-450-4219-7.
  • Chiara Frugoni, Immagini fra tardo antico e alto medioevo: qualche appunto in Morfologie sociali e culturali in Europa fra tarda antichità e alto medioevo, Spoleto, 1998, Tomo II, pp. 703-744..
  • (EN, DE) Cristina La Rocca, Stefano Gasparri, Forging an early medieval royal couple: Agilulf, Theodolinda and the "Lombard Treasure" (1888-1932) in Archäologie der Identität, Vienna, 2010, pp. 269-287..
  • Maria Silvia Lusuardi Siena, Una precisazione sulla lamina di Agilulfo dalla Valdinievole in Studi di storia dell’arte in onore di Maria Luisa Gatti Perer, Milano, 1999, pp. 15-26..
  • Natale Rauty, Il Regno Longobardo e Pistoia, Pistoia, 2005.
  • Wilhelm Kurze, La lamina di Agilulfo: usurpazione o diritto? in Atti del VI Congresso Internazionale di Studi sull’Alto medioevo (Milano 1978), Spoleto, 1980, Tomo II, pp. 447-456..
  • Pierluigi De Vecchi ed Elda Cerchiari, I tempi dell'arte, volume 1, Bompiani, Milano 1999. ISBN 88-451-7107-8

Cattedra vescovile di Massimiano

Titolo dell'opera: Cattedra
Autore: vari
Anno di esecuzione: V secolo
Luogo: Ravenna (museo arcivescovile)

La cattedra vescovile di Massimiano è un trono episcopale con struttura in legno ricoperta di placchette in avorio, probabilmente realizzato a Costantinopoli per il primo arcivescovo di Ravenna Massimiano (546-554). La ricchezza della sua decorazione e la rarità di una tale tipologia di arredamento la rendono un esemplare eccezionale di scultura paleocristiana in avorio. È conservata al Museo arcivescovile di Ravenna.

La datazione e l'origine di questa opera sono dibattute. La sua identificazione si basa sull'interpretazione del complesso monogramma presente nel pannello centrale superiore della faccia anteriore, che dovrebbe corrispondere a MAXIMIANVS EPISCOPVS ("Massimiano vescovo"). Massimiano è il nome dell'arcivescovo di Ravenna che entrò in carica qualche tempo dopo la conquista della città da parte dell'esercito dell'imperatore Giustiniano I nel 540; fu anche patrono delle principali chiese del suo vescovado, tra cui la basilica di San Vitale, dedicata nel 546, e quella di Sant'Apollinare in Classe, dedicata nel 549. Massimiano ebbe stretti legami con la corte imperiale di Costantinopoli, come testimoniato dalla sua presenza accanto all'imperatore nel mosaico di Sant'Apollinare; per tale motivo è plausibile che la cattedra sia stata donata da Giustiniano stesso.

Si tratta di un'opera complessa, composta in origine da 26 pannelli d'avorio scolpito, appartenenti a due cicli narrativi distinti: i 16 pannelli dello schienale, dei quali nove sono andati perduti, furono decorati con scene della vita di Gesù, per un totale di 24 scene, dato che gli 8 pannelli superiori furono decorati su entrambe le facce. I dieci pannelli dei braccioli della cattedra rappresentano scene del ciclo di Giuseppe. La parte frontale, infine, presenta i pannelli meglio scolpiti, con i quattro evangelisti e san Giovanni Battista che tiene una raffigurazione dell'"agnello di Dio" in un medaglione.

Le differenze stilistiche tra i pannelli della parte anteriore e di quella posteriore della cattedra sono molto marcate; non si può non paragonarle a quelle che intercorrono tra il pannello centrale e quelli laterali dell'avorio Barberini.






Massimiano (mosaico Ravenna)
La funzione di tale oggetto è meno chiara di quanto suggerisca il nome: la sua struttura è infatti un po' troppo fragile per un vero e proprio trono episcopale. Un'ipotesi è che si tratti di un trono simbolico, su cui posare i libri sacri.
Bibliografia

  • Anthony Cutler, Late Antique and Byzantine ivory carving, Aldershot, Ashgate Variorum, 1998.
  • John Lowden, L'Art paléochrétien et byzantin, Paris, 2001.
  • Giuseppe Bovini, Cattedra eburnea del vescovo Massimiano di Ravenna e breve guida alla visita del complesso storico monumentale della Cattedrale, Ravenna

Biografie: Pietro di Domenico



Pietro di Domenico da Montepulciano (XV secolo – ...) è stato un pittore italiano, apparteneva alla scuola senese. Operò nell'anconetano. Più che di Montepulciano toscano, sembra originario di un omonimo paese delle Marche, dove ebbe una bottega e dove furono trovate varie sue opere.
Fu identificato da Umberto Gnoli con Pietro di Domenico da Montepulciano dopo la presentazione della tavola della Madonna dell'Umiltà al Metropolitan Museum di New York nel 1908.

Bibliografia

"Macerata e il suo territorio: la pittura" di Giuseppe Vitalini Sacconiardner
"Storia della Pittura Italiana esposta coi monumenti da Giovanni Rosini, Pisa presso Niccolò Capurro, 1841
"The Metropolitan Museum of Art, Italian Paintings, Sienese and Central Italian Schools, Federico Zeri e Elizabeth E. Gardner, 1980

Gentile da Fabriano: Madonna col Bambino tra i santi Nicola di Bari, Caterina d'Alessandria e un donatore

Titolo dell'opera: Madonna col Bambino tra i santi Nicola di Bari, Caterina d'Alessandria e un donatore
Autore: Gentile da Fabriano
Anno di esecuzione: 1395-1400 circa
Luogo: Berlino (Gemäldegalerie)



La scena mostra la Madonna col Bambino in trono, che guarda verso lo spettatore, affiancata dai due santi, Nicola di Bari e Caterina, e dal donatore inginocchiato in basso, di proporzioni più piccole, secondo la tradizione medievale, ma comunque considerevoli. La sua figura è di profilo e rigidamente immota, con una buona resa della fisionomia individuale nel ritratto.

Maria poggia i piedi su una pedana decorata da archetti polilobati, a sua volta collocata sopra uno straordinario prato fiorito, con le specie vegetali indagate con grande cura, tra cui spiccano due alti gigli bianchi, tipico fiore offerto a Maria, simbolo della sua purezza. Tale caratteristica deriva dalla tradizione del gotico internazionale lombardo, nella cui area di influenza, verosimilmente a Pavia, Gentile abbe la sua formazione. Due alberelli incorniciano la Vergine e scandiscono il ritmo della pala tra figure centrali e laterali, richiamando lo schema tradizionale del polittico. Nelle fronde si trovano serafini brulicanti che suonano, un omaggio esplicito alle miniature di Giovannino de' Grassi e alla rinomata officina miniaturistica pavese nota come Ouvrage de Lombardie.

Alcuni stilemi rimandano inequivocabilmente alla tradizione tardogotica, come il ritmico cadere delle pieghe dei panneggi in linee sinuose, mentre altri rimandano a un rinnovato naturalismo, come la figura esile e atteggiata con scioltezza del Bambino, benedicente verso il committente e con un braccio che va a cercare il collo della madre. Il suo corpicino è avvolto da Maria in un panno foderato di pelliccia, morbida e calda, resa grazie a uno stratagemma pittorico di sfumature ovattate e delicatissime che è tipico del pittore. La stessa resa materica si ritrova anche nel vestito di Caterina, abbigliata con lo sfarzo di una principessa dell'epoca. Un altro chiaro indizio della paternità gentilesca è il gesto della mano in scorcio di san Nicola, che sembra uscire dal dipinto, secondo un procedimento illusionistico che venne messo a punto meglio in opere successive, come la Pala Strozzi. Altre caratteristiche tipiche sono la fisionomia di Maria, con gli occhi grandi come nella Madonna col Bambino in gloria tra i santi Francesco e Chiara, o l'attenzione alla riproduzione di gioielli, come le spille che reggono i manti della Vergine e di Nicola.
Bibliografia:

Mauro Minardi, Gentile da Fabriano, Skira, Milano 2005.

Simone Martini: San Ludovico di Tolosa che incorona il fratello Roberto d'Angiò

Titolo dell'opera: San Ludovico di Tolosa che incorona il fratello Roberto d'Angiò
Autore: Simone Martini
Anno di esecuzione: 1317 (circa)
Luogo: Napoli (Museo nazionale di Capodimonte)



La tavola assume la tipica conformazione di quelle del periodo bizantino. Le figure dei personaggi sono intere; quella di Ludovico, posta al centro della tavola nell'atto di incoronamento, è frontale ed indossa un piviale con gli attributi propri, episcopale, pastorale e mitra;

Sopra il santo due angeli sorreggono la corona, mentre al suo fianco, in proporzioni minori, seguendo il principio della gerarchia tradizionale, è rappresentato in ginocchio Roberto d'Angiò, nuovo re di Napoli.

I contorni della pala vedono una decorazione blu scura con gigli, proprio a rappresentare la casa d'Angiò. La tavola è poi completata nella parte inferiore dalla predella, in cui sono rappresentate con linguaggio giottesco cinque scene della vita del santo ed un miracolo attribuito a lui dopo la sua morte (avvenuta nel 1297).

Il fondo oro, infine, è un ulteriore elemento di matrice bizantina.

Bibliografia:
P. de Rynck, Simone Martini: «San Luis de Toulouse coronando a Roberto de Anjou, rey de Nápoles», pp. 12–13, Random House Mondadori (2005) ISBN 84-8156-388-9

Basiliche: Santa Maria in Trastevere - Opera di Pietro Cavallini

Il ciclo decorativo dei mosaici di Santa Maria in Trastevere viene tradizionalmente datato al 1291 (sulla base di una strana data MCCLCI letta in passato, ma oggi perduta), anche se alcuni storici tendono a spostarlo più avanti nel tempo, al 1296 circa[3]. Di certo il committente fu Bertoldo Stafaneschi (qui sepolto), figlio del senatore Pietro Stefaneschi e di Perna Orsini e fratello del futuro cardinale Jacopo Stefaneschi: a quest'ultimo si devono i versi poetici che accompagnano gli episodi della Vita della Vergine Maria raffigurati:

Natività della Vergine

Annunciazione


Natività

Madonna con Bambino in clipeo e i Santi Paolo, Pietro e il donatore Bertoldo Stefaneschi (pannello centrale)

Adorazione dei Magi

Presentazione al tempio

Dormitio Virginis

Questa opera mostra appieno le capacità tecniche di Cavallini che rompeva con le forme ieratiche bizantine e adattava i modelli stilistici dei suoi mosaici alle novità che provenivano dalla pittura e dalla scultura toscane, affiancando la scuola romana al clima gotico della pittura di Cimabue e alle prime esperienze di Giotto.

La nuova sensibilità si può vedere nelle citazioni naturalistiche della Nascita di Gesù, ma meglio ancora nella tridimensionalità del trono che appare dietro la Madonna spaventata dall'improvvisa apparizione dell'Arcangelo annunciante. Queste architetture sono state messe in relazione con le opere di Giotto, ma in questo confronto Cavallini si dimostra diverso: le sue quinte architettoniche infatti sono dei semplici sfondi irreali, che, tranne rari casi (l'altare della Presentazione al tempio o il trono di Maria) non dialogano con i personaggi, che anzi sono decisamente sproporzionati. Inoltre la presenza di punti di vista diversi dà a queste prospettive intuitive un aspetto arcaico e impreciso.


Bibliografia

  • Enio Sindona, Pietro Cavallini, Istituto editoriale italiano, Milano 1958.
  • Guglielmo Matthiae, Pietro Cavallini, De Luca, Roma 1972.
  • Paul Hetherington, Pietro Cavallini: a study in the art of late Medieval Rome, The Sagittarius press, London 1979. ISBN 0-9503163-3-4
  • Angiola Maria Romanini, Gli occhi di Isacco. Classicismo e curiosità scientifica tra Arnolfo di Cambio e Giotto, in “Arte medioevale”, n.s., I (1987).
  • Emma Simi Varanelli, Dal Maestro d'Isacco a Giotto. Contributo alla storia della perspectiva communis medievale, in "Arte medievale", n.s. III (1989), pp. 115–143.
  • Serena Romano, Eclissi di Roma: pittura murale a Roma e nel Lazio da Bonifacio VIII a Martino V (1295-1431), Argos, Roma 1992. ISBN 88-85897-14-2
  • Alessandro Parronchi, Cavallini discepolo di Giotto, Firenze 1994. ISBN 88-85977-15-4
  • Pierluigi De Vecchi ed Elda Cerchiari, I tempi dell'arte, volume 1, Bompiani, Milano 1999
  • Alessandro Tomei, Pietro Cavallini, Silvana, Cinisello Balsamo 2000. ISBN 88-8215-165-4
  • Bruno Zanardi, Giotto e Pietro Cavallini: la questione di Assisi e il cantiere medievale della pittura a fresco, Skira, Milano 2002. ISBN 88-8491-056-0
  • Dipinti romani tra Giotto e Cavallini, catalogo della mostra tenuta a Roma nel 2004 a cura di Tommaso Strinati e Angelo Tartuferi, Electa, Milano 2004. ISBN 88-370-3062-2