Simone Martini - Storia di San Martino (Cappella di San Martino - Assisi)

Titolo dell'opera: Storia di San Martino
Autore: Simone Martini
Anno di esecuzione: 1316 - 1317
Luogo: Assisi (Basilica Inferiore)

La cappella di San Martino è la prima cappella a sinistra nella basilica inferiore di San Francesco d'Assisi. Voluta e finanziata dal cardinale Gentile Partino da Montefiore, fu interamente affrescata da Simone Martini nel 1313-1318. Il suo ciclo di affreschi è una delle opere più significative del maestro senese.







Partino da Montefiore
Gentile Partino da Montefiore era il cardinale della basilica dei Santi Silvestro e Martino ai Monti a Roma. Un documento del marzo 1312 testimonia lo stanziamento da parte del cardinale di 600 fiorini d'oro per costruire ed affrescare una cappella nella basilica inferiore di San Francesco. Nella primavera dello stesso anno il cardinale è documentato a Siena, in viaggio per Avignone in quanto incaricato di trasferire il tesoro pontificio presso la nuova sede francese. A Siena probabilmente si accordò con Simone Martini per l'affrescatura della cappella. Nell'ottobre dello stesso anno, il cardinale morì a Lucca, prima di raggiungere Avignone.

Simone Martini lavorò nella cappella in almeno tre fasi. Iniziò i lavori nel 1312-1313, lasciando sospesa la Maestà del Palazzo Pubblico di Siena a cui stava lavorando. In questa prima fase realizzò ad Assisi i disegni per le vetrate e forse iniziò gli affreschi. Tornò a Siena intorno al 1314 per ultimare la Maestà, per poi tornare di nuovo ad Assisi dopo il giugno del 1315. Qui iniziò la seconda fase con la realizzazione di tutti gli affreschi della cappella. Nel 1317 fu chiamato da Roberto d'Angiò a Napoli, ma subito dopo tornò ad Assisi, per ultimare (e in alcuni casi rifare) gli affreschi di santi a figura intera sotto l'arcone di ingresso. I lavori furono compiuti probabilmente entro il 1318.

Lo stile di Simone Martini in questi anni è realistico e oltretutto raffinato nei modi con cui vengono raffigurati i personaggi, i loro volti, le loro posture, il tocco delle loro mani. Simone è estremamente abile nella resa di linee fisionomiche dei volti a dare personaggi naturalistici, veri, tutt'altro che stereotipati. Ciò si nota proprio nei volti dei personaggi secondari degli affreschi quali i musici di corte nella scena dell'Investitura del santo a cavaliere o della guardia che svetta tra l'imperatore e il santo nella scena della Rinuncia alle armi o ancora nel volto del personaggio perplesso nella scena del Miracolo del fanciullo risuscitato. Il realismo lo si nota anche dalla cura con cui sono raffigurati tessuti e oggetti. Simone è un pittore cortese, laico anche nella rappresentazione di soggetti religiosi, quasi cavalleresco.



In questi affreschi Simone mostra anche di ricevere l'influenza di Giotto, che proprio in questi anni stava affrescando il transetto destro della stessa basilica. Risultati di quest'influenza sono la collocazione delle scene in contesti architettonici resi con un'opportuna resa prospettica e una maggiore attenzione per le vere fonti di luce nella resa dei chiaroscuri. Le volumetrie dei santi a figura intera del sottarco di ingresso, gli ultimi affreschi realizzati da Simone in ordine cronologico in questa cappella, sono un ulteriore avvicinamento allo stile di Giotto. Tuttavia Simone non si adeguò passivamente alla scuola fiorentina, anzi è chiara una divaricazione tra il suo modo di dipingere e quello giottesco a partire dallo stesso tema dei dipinti: non le storie di un santo popolare come san Francesco, ma un raffinato santo cavaliere, del quale Simone sottolineò alcuni aspetti cortesi della leggenda. 


Per esempio nella famosa scena dell'Investitura di san Martino, l'azione è ambientata in un palazzo, con i musici di corte magnificamente abbigliati e con un servitore con tanto di falcone da caccia in mano. Il contesto di Simone è più fiabesco e assolutamente notevole è lo studio realistico dei costumi e delle pose; l'individuazione fisionomica nei volti non ha pari in tutta la pittura dell'epoca, Giotto compreso. Anche la resa cromatica beneficia di un maggior repertorio di tinte.

In sintesi, con questi affreschi Simone si confermò come pittore laico, cortese, raffinato. Fu in questi anni che si concretizzò la sua capacità di ritrarre fisionomie naturali, gettando le basi per la nascita della ritrattistica.







Bibliografia

Marco Pierini, Simone Martini, Silvana Editore, Milano 2002.
Pierluigi Leone de Castris, Simone Martini, Federico Motta Editore, Milano 2003.

Pietro Lorenzetti

Pietro Lorenzetti

Le notizie sicure sulla vita di Pietro Lorenzetti sono assai scarse e si limitano, in massima parte, alle date che egli appose sui suoi lavori (quattro pervenute) e a qualche documento. Non se ne conosce né la data di nascita, né quella di morte, calcolabili solo in maniera approssimativa. Né tantomeno offre un aiuto sostanziale la biografia che di lui redasse Giorgio Vasari, la prima, poiché sebbene lo storico aretino si dilunghi in elogi dell'opera del Lorenzetti, egli compì alcuni macro-errori proprio a partire dal nome, che travisò in "Pietro Laurati" mal leggendo la firma "Petrus Laurentii" della Madonna oggi agli Uffizi, e non mettendo mai in relazione l'artista col fratello Ambrogio, nonostante egli avesse potuto leggerne le firme in quanto frater nei perduti affreschi della facciata dell'ospedale di Santa Maria della Scala a Siena.
Inoltre non gli assegnò la sua opera più importante, ovvero gli affreschi nel transetto sinistro della basilica inferiore di Assisi, assegnandoli a Puccio Capanna, Pietro Cavallini e Giotto. Ritenne infine erroneamente di sua mano la Tebaide nel Camposanto monumentale di Pisa.

Lorenzo Ghiberti invece non nominò mai Pietro, assegnando anche gli affreschi di Santa Maria della Scala al solo Ambrogio e dimostrando come neanche lui ne avesse letta la firma. La sua formazione dovette compiersi sotto Duccio di Buoninsegna, assieme al coetaneo Simone Martini.


da Wikipedia: Pietro Lorenzetti

Giotto - Maestà di Ognissanti

Titolo dell'opera: Maestà di Ognissanti
Autore: Giotto
Anno di esecuzione: 1310
Luogo: Firenze (Galleria degli Uffizi)


Questa pala venne probabilmente dipinta dal maestro al ritorno a Firenze dopo essere stato ad Assisi; altri critici la collocano a un'epoca un po' più tarda, dopo vari viaggi, verso il 1314-1315, dopo comunque gli affreschi della Cappella degli Scrovegni di Padova, quando era così noto da far scrivere a Dante la famosa menzione nella Divina Commedia (Purgatorio, XI, 94-96), in cui si cita, a proposito della transitorietà della fama, come quella di Giotto abbia ormai eclissato il maestro Cimabue. Nonostante i pareri contrastanti circa l'autografia, è ritenuta da tutta la critica capolavoro autografo di altissima qualità e di grande importanza nel percorso artistico dell'artista nonché nello sviluppo dell'iconografia della Maestà.

La prima menzione dell'opera risale al 1418 quando l'altare dove si trovava in Ognissanti, l'ultimo a destra, veniva ceduto a un tale Francesco di Benozzo. Il più antico riferimento a Giotto come autore della tavola si ha con Lorenzo Ghiberti, che nei Commentari descrisse una «tavola grandissima di Nostra Donna a sedere in una sedia con molti angeli intorno».

Una collocazione originaria così defilata è poco credibile, e probabilmente la tavola si doveva trovare in principio sul lato destro del tramezzo, la recinzione che prima del Concilio di Trento divideva nelle chiese la zona dei sacerdoti (il presbiterio) da quella dei fedeli, oppure su un altare ad esso accostato. Il Bambino benedicente infatti è voltato di tre quarti e con lo sguardo verso sinistra.

Nel 1810 la pala venne secolarizzata, togliendola dalla chiesa e destinandola ai depositi di dipinti che si andavano costituendo presso la Galleria dell'Accademia, passando nel 1919 agli Uffizi.

Il confronto con le opere precedenti dà un valido metro di come l'arte di Giotto si muovesse ormai verso un radicale rinnovamento della pittura, anche se non mancano stilemi arcaici come il fondo oro e le proporzioni gerarchiche, queste ultime dovute forse alla necessità di mostrare il maggior numero possibile di fedeli attorno alla Vergine. Il tema della Maestà è reinterpretato con grande originalità, incentrato sul recupero della spazialità tridimensionale degli antichi e sul superamento della frontalità bizantina.

La Madonna e il Bambino hanno un volume solido, ben sviluppato in plasticità, dal netto contrasto tra ombre e lumeggiature, molto più che nella vicina opera di Cimabue (la Maestà di Santa Trinita) di circa dieci anni anteriore. Il peso così terreno delle figure è evidenziato dalla gracilità delle strutture architettoniche del trono. Raffinati sono i colori, come il bianco madreperlaceo della veste, il blu di lapislazzuli del manto, il rosso intenso della fodera. Maria è una matrona che, in maniera del tutto originale, accenna quasi un sorriso, dischiudendo appena le labbra e mostrando da uno spiraglio i denti bianchi.

Giustizia
Le figure sono incorniciate da un raffinato trono cuspidato, creato secondo una prospettiva intuitiva ma efficace, che accentua la profondità spaziale, nonostante il fondo oro. Esso si ispira a Cimabue, ma ha anche una straordinaria somiglianza con quello della Giustizia della Cappella degli Scrovegni. Originalissima è poi la disposizione dei due santi nell'ultima fila, visibili solo attraverso il traforo del trono, che assomiglia a un trittico richiuso o a un ciborio ornato di incorstazioni marmoree.











Tutti gli sguardi degli angeli convergono verso il centro del dipinto, con l'innovativa rappresentazione di profilo di alcuni di essi, una posizione riservata solo alle figure sinistre (Giuda, i diavoli...) nell'arte bizantina. Essi hanno in mano doni per la Madonna: una corona, un cofanetto prezioso e vasi con gigli (simboli di purezza) e rose (fiore mariano): i vasi sono tra i primi esempi in ambito medievale di "natura morta", già sperimentata da Giotto nella Cappella degli Scrovegni.

A differenza delle opere più antiche, Giotto ricava uno spazio pittorico nel quale dispone con verosimiglianza gli angeli e i santi: essi sono ancora rigidamente simmetrici, ma non lievitano ormai più uno sull'altro, né sono appiattiti, ma si collocano con ordine uno dietro all'altro, ciascuno diversificato nella propria fisionomia, finemente umanizzata rivelando un'inedita attenzione al dato reale.



La tecnica pittorica è molto avanzata ed ha completamente sorpassato la schematica stesura tratteggiata del Duecento, preferendo una sfumatura delicata ma incisiva e regolare, che dà un volume nuovo alle figure. Il senso del volume ottenuto col chiaroscuro, le forme scultoree, quasi dilatate, e la semplificazione delle forme saranno il punto di partenza per le ricerche di Masaccio.

Bibliografia

AA.VV., Galleria degli Uffizi, collana I Grandi Musei del Mondo, Roma 2003.
Gloria Fossi, Uffizi, Giunti, Firenze 2004, pag. 110. ISBN 88-09-03675-1
Maurizia Tazartes, Giotto, Rizzoli, Milano 2004. ISBN non esistente
Luciano Bellosi, Giotto, in Dal Gotico al Rinascimento, Scala, Firenze 2003. ISBN 88-8117-092-2
Edi Baccheschi, L'opera completa di Giotto, Rizzoli, Milano 1977. ISBN non esistente