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Biografie: Maestro Oltremontano

Il cosiddetto Maestro Oltremontano, o d'Oltralpe (... – ...), è stato un pittore anonimo forse francese attivo nella basilica superiore di Assisi verso la fine del XIII secolo.

Opere

Lavorò nel transetto destro della basilica superiore di Assisi più o meno contemporaneamente a Cimabue, occupandosi della parte superiore. Per il suo stile più spiccatamente gotico, forse francese o inglese, è stato in seguito chiamato dalla critica "Maestro Oltremontano".

A lui sono attribuite i due lunettoni (Trasfigurazione e San Luca inginocchiato accanto a un trono), la loggetta sinistra (con busti di angeli entro clipei e grandi figure di santi e profeti a piena figura dietro le colonnine), e i paramenti decorativi (magari affidati a maestranze di bottega) presenti nei sott'archi dei lunettoni, della vetrata, e dei costoloni, con motivi vegetali e geometrici. Inoltre alcuni gli attribuiscono le fasce decorative della volta, in particolare i mascheroni vicini agli innesti sui pilastri, e i resti delle due grandi figure entro nicchie (Isaia e David) ai lati della vetrata alla testata del transetto, sormontate da due rosoni dipinti.

La loggetta destra invece viene per lo più attribuita a un maestro romano.

Cimabue - Volta dei quattro Evangelisti

Titolo dell'opera: Volta dei quattro Evangelisti
Autore: Cimabue
Anno di esecuzione: 1277 - 1280
Luogo: Assisi (Basilica Superiore)


La Volta dei quattro Evangelisti è un affresco (circa 900x900 cm) di Cimabue, databile attorno al 1277-1283 circa e conservata nella basilica superiore di San Francesco di Assisi. Si tratta della volta al centro del presbiterio.

La datazione degli affreschi di Cimabue è piuttosto discorde, sebbene negli studi più recenti si sia assestata a un periodo tra il 1277, anno dell'elezione al soglio pontificio di Niccolò III (il cui stemma Orsini si trova nella rappresentazione simbolica di Roma nella vela dell'evangelista Marco), e il 1283 circa.

A differenza delle rovinate scene delle pareti, la volta mantiene nella maggior parte della superficie i rapporti originali tra zone chiare e scure, grazie a un'ossidazione della biacca minore o assente.

Lo spicchio con San Matteo crollò nel terremoto del 26 settembre 1997, ed oggi è stato ripristinato per quanto possibile cercando di recuperare gli elementi superstiti originali.


La volta degli Evangelisti è il nodo dell'intera decorazione della basilica, poiché da ciascun Vangelo si dipana idealmente la rappresentazione delle varie scene del transetto, dell'abside e della navata. Ogni vela è occupata da uno degli evangelisti, rappresentati secondo uno schema fisso, in cui ciascuno è in atto di scrivere, ispirato da un angelo che piove dall'alto. Il loro scranni occupano la metà sinistra di ciascuna vela, mentre quella destra è decorata da una veduta della regione evangelizzata: Matteo, la Giudea (Iudea); Giovanni, l'Asia; Luca, la Grecia (Ipnacchaia, cioè l'Acaia); Marco, l'Italia (Ytalia). Sia gli evangelisti che le regioni geografiche sono identificate da scritte a chiare lettere. Le regioni sono rappresentate da una sintetica rappresentazione architettonica delle loro città principali, rispettivamente Gerusalemme, Efeso, Corinto e Roma. Le città possono essere anche considerate come una notazione spaziale precisa, legata al luogo in cui ciascun Vangelo fu scritto, ed alludono inoltre alla dimensione universale del messaggio cristiano in generale e francescano in particolare.

Lo sfondo delle vele era un tempo oro, oggi in larga parte perduto rendendo visibile la preparazione bianca sottostante.

I modi bizantini delle figure, di grande eleganza ma ormai arrivati al capolinea di uno sterile intellettualismo, sono qui aggiornati alla ricerca di forme più piene, con un evidente mutamento d'indirizzo ispirato alle opere romaniche, all'arte classica e al neoellenismo di alcune correnti bizantine più originali.


I buchi che forano qua e là la superficie furono anticamente usati per appendere lucernari.

San Matteo

Per aderire alla forma triangolare della vela, in questa come nelle altre scene, Cimabue dovette utilizzare delle vertiginose forzature, come l'inclinazione del seggio dell'evangelista verso il suo scrittoio, alla base del quale si trova il tipico simbolo dell'angelo. I rocchetti che si ritrovano in tutti i seggioloni (e anche nei troni delle Madonna cimabuesche) derivano dalla tradizione carolingia, nota oggi attraverso la miniatura. Piacevole è la posa dell'evangelista, con una mano scrivente e l'altra piegata verso il petto con naturalezza, fuoriscente dalla veste con una porzione del braccio per effetto del calare della manica con la gravità.

Un altro angelo, simbolo dell'ispirazione divina, si affaccia poi da un clipeo tra nuvolette al vertice della vela e distende un braccio verso la testa dell'evangelista a simboleggiarne l'ispirazione divina.

Molto curata è la rappresentazione degli strumenti del mestiere sul piano dello scrittorio, così come la presenza dei libri che si intravedono da uno sportello aperto sotto il mobile, in uno scomparto che simula la profondità spaziale. A destra la "Giudea" è rappresentata pure in maniera inclinata, senza un raccordo spaziale con la metà destra. In questa ipotetica Gerusalemme, murata come le altre città della serie con un porta a beneficio del lato dello spettatore, si riconosce un grosso tempio con un corpo a pianta centrale, circondato da una torre e da due loggette simmetriche: si tratta della basilica del Santo Sepolcro. Le varie sfaccettature dell'edificio sono trattate con un'attenzione alla diversa illuminazione, in modo da dare un risalto anche plastico.

San Giovanni

La figura di Giovanni è l'unica ad avere un'importazione diversa dalle altre: il suo scranno è al centro, vicino a un leggio, sotto il quale sta il simbolo dell'aquila. Lo scrittoio si trova invece calato nell'angolo sinistro, su un leggio più piccolo e con alcuni oggetti riposti negli scomparti interni, tra cui alcuni libri e delle ampolle. La diversa organizzazione fu tentata forse per rompere la rigida ripetizione e cercare di raccordare i vari oggetti in una concezione spaziale più coerente.

Davanti all'evangelista si trova una rappresentazione di Efeso come capitale dell'Asia. La città è l'unica con la porta sormontata da un archetto decorato all'orientale (forse un riferimento all'architettura araba) e con un'anta visibile e dischiusa. Vi si riconosce un frontone di un tempio antico, forse un riferimento al tempio di Artemide su cui era stata edificata la casa di Maria.

San Luca

La prospettiva della figura di Luca è particolarmente ardita, con l'evangelista chino sullo scrittorio il cui piano è ribaltato verso lo spettatore e appare vicino al bue accovacciato sul gradino al centro. Il volto di Luca è particolarmente convincente nel momento in cui il pensiero si concentra per effetto dell'ispirazione divina. Fu tra figure che ispirò un passo dell'abate Lanzi: «[Cimabue], fiero come il secolo in cui viveva, riuscì egregiamente nelle teste degli uomini di carattere, e specialmente dei vecchi, imprimendo loro un non so che di forte, e di sublime, che i moderni han potuto portare poco più oltre».

Otto Demus trovò una fonte abbastanza fedele all'evangelista cimabuesco in una miniatura del codice gr. 54 della Bibliothèque Nationale di Parigi (1250-1275 circa).

La rappresentazione di Corinto, con un grande edificio a pianta centrale, simboleggia la Grecia. Mario Salmi lesse nell'edificio una generica citazione delle cuspidi arnolfiane, che decorano il coronamento del deambulatorio. Anche qui, come nella Gerusalemme di san Matteo, gli edifici sono rappresentati con una predilezione per le sfaccettature geometriche illuminate in maniera diversa a seconda dell'angolazione.

San Marco

Marco, con uno schema simile a quello dei suoi colleghi, sta seduto su uno scranno presso uno scrittoio su cui è poggiato il suo Vangelo e, da uno sportello aperto, si intravedono altri oggetti. Vicino si trova rappresentato il leone alato, suo simbolo. L'evangelista è colto mentre guarda la punta della matita appena temperata.

Particolarmente interessante è la rappresentazione di Roma simboleggiante l'Italia, per il ricco numero di monumenti descritti che l'artista aveva probabilmente visto direttamente in occasione del suo soggiorno del 1272. Subito sotto la scritta Ytalia si vede ad esempio il Palazzo Senatorio del Campidoglio, dagli scudi con le scritte SPQR alternati aghli stemmi Orsini di Niccolò III o di un suo parente in carica (se ne contano circa otto in quegli anni). La basilica può essere o l'antica chiesa di San Pietro in Vaticano, o San Giovanni in Laterano, con un Cristo in trono tra la Madonna e san Giovanni sulla facciata, tracciati come una sorta di sinopia. Qualsiasi delle due basiliche papali sia è ininfluente ai fini del messaggio politico, legato all'accostamento col palazzo senatorio, e quindi delle cariche di pontefice e senatore dopo la cacciata di Carlo d'Angiò detenute da Niccolò III, suprema autorità religiosa e governatore di diritto della città. Si vedono poi la mole del Mausoleo di Adriano, edificio regalato dal pontefice al nipote Orso, la torre delle Milizie e il Pantheon. La chiesa porticata in basso a sinistra potrebbe infine essere i Santi Apostoli accanto al palazzo Colonna; altre interpretazioni, legate a quale edificio si intenda nella basilica soprastante, riferiscono questa chiesa anche come San Pietro e il palazzo Apostolico o San Giovanni e il palazzo del Laterano.

C'è un'altra lettura, per certi versi opposta, sulla presenza dello stemma Orsini sul palazzo Senatorio. Non apparendo su altri edifici ribadirebbe la carica di un senatore Orsini e non quella, più rilevante, del papato, e sarebbe da circoscrivere alla situazione romana dopo la morte di Niccolò III, quando gli scontri tra i partito guelfo (Orsini) e quello ghibellino dei sostenitori di Carlo d'Angiò (capeggiato dalla famiglia Annibaldi), che portò alla nomina del neutrale Martino IV nel 1280, il quale scelse prudentemente di risiedere per un po' in Viterbo. La preeminenza della torre delle Milizie, già degli Annibaldi, e la menzione della carica senatoria di Gentile Orsini (nel 1280), filofrancese, potrebbe essere letta come un omaggio a tale fazione.

Decorazioni

La decorazione dei costoloni e delle cornici delle vele è caratterizzata da motivi geometrici ben conservati, racemi, testine che appaiono tra foglie d'acanto, e alla base delle vele angeli telamoni che reggono vasi da cui si dipana la decorazione geometrico-vegetale. In qualche singolo brano (come alcune figure d'angelo) alcuni hanno ipotizzato la mano diretta del maestro, a cui spetta comunque l'ideazione generale.


Bibliografia

Eugenio Battisti, Cimabue, Milano, Istituto Editoriale Italiano, 1963.
Enio Sindona, Cimabue e il momento figurativo pregiottesco, Rizzoli Editore, Milano, 1975. ISBN non esistente

Giotto - San Francesco rinuncia ai beni terreni

Titolo dell'opera: San Francesco rinuncia ai beni terreni
Autore: Giotto
Anno di esecuzione: 1290 -1292 circa
Luogo: Assisi (Basilica Superiore)



Francesco rinuncia ai beni terreni, o più semplicemente Rinuncia ai beni terreni, è la quinta delle ventotto scene del ciclo di affreschi delle Storie di san Francesco della Basilica superiore di Assisi, attribuiti a Giotto. Fu dipinta verosimilmente tra il 1295 e il 1299 e misura 230x270 cm.

Questo episodio appartiene alla serie della Legenda maior (I, 3) di san Francesco: "Quando restituì al padre ogni cosa e, deposte le vesti, rinunciò ai beni paterni e temporali, dicendo: «Di qui in avanti posso dire con certezza: -Padre nostro che sei nei cieli-, poiché Pietro di Bernardone m'ha ripudiato.»"

La scena, che nella realtà si svolse in piazza del Duomo a Foligno, è organizzata secondo uno schema molto efficace di due fasce verticali intervallate dallo sfondo neutro: a sinistra Pietro Bernardone, il padre di Francesco, col volto contratto, dalla notevole espressività, viene trattenuto da un uomo per un braccio; egli ha il pugno chiuso e si solleva la veste come per volersi lanciare contro il figlio, un vero e proprio "gesto parlante"; dietro di lui si dispiegano i cittadini borghesi; dall'altra parte san Francesco spogliato che prega asceticamente verso la mano di Dio benedicente che appare tra le nuvole; il vescovo copre alla meglio la sua nudità e altri religiosi (caratterizzati dalla tonsura) lo seguono. La netta spaccatura della scena è efficacemente simbolica delle posizioni inconciliabili dei due schieramenti, che sono il passato e il presente di Francesco.

Nella casualità quotidiana della folla non è tralasciata nemmeno la raffigurazione di due bambini, quali passanti, che tengono le vesti rialzate, forse per tenere dei sassi da tirare al "pazzo".

Notevolissima è poi la resa anatomica del corpo di Francesco, con chiare lumeggiature che definiscono il volume della muscolatura di sorprendente modernità (si pensi quanto sono lontani i geometrici grafismi dei crocifissi della pittura immediatamente precedente). Particolarmente stringenti sono le affinità, soprattutto nei volti, con le figure dipinte nei registri superiori della basilica dal cosiddetto Maestro di Isacco, forse lo stesso Giotto forse un capobottega leggermente più anziano.

Le scenografie architettoniche sono particolarmente sviluppate in altezza e creano complessi volumi con vuoti e pieni (si guardi per esempio al terrazzo sulla destra sostenuto da una colonna). In questi edifici non sono mantenuti rapporti dimensionali coerenti con le figure presenti, ma sono delle semplici quinte alla scena. Alcune incertezze assonometriche si possono notare nella scaletta esterna sulla sinistra, dove i gradini non sono dritti per permettere l'innaturale visione del pavimento (mentre si vede il soffitto del pianerottolo anche in basso dove è sorretto da due colonne.


Figure e sfondo appaiono efficacemente integrate, con colori chiari e brillanti dalle valenze anche simboliche: l'abito del padre ad esempio è giallo, simbolo di ricchezza mondana.


Bibliografia

Maurizia Tazartes, Giotto, Rizzoli, Milano 2004. ISBN non esistente
Edi Baccheschi, L'opera completa di Giotto, Rizzoli, Milano 1977. ISBN non esistente

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"Giotto - Legend of St Francis - -05- - Renunciation of Wordly Goods" di Giotto - Le informazioni sulla fonte di questo file multimediale sono mancanti.Per favore modifica questa pagina di descrizione del file fornendone la provenienza.. Con licenza Pubblico dominio tramite Wikimedia Commons.

Cimabue - Crocifissione

Titolo dell'opera: Crocifissione - Transetto sinistro
Autore: Cimabue
Anno di esecuzione: 1277 - 1280
Luogo: Assisi (Basilica superiore)



La Crocifissione del transetto sinistro è un affresco (circa 350x300 cm) di Cimabue e aiuti, databile attorno al 1277-1283 circa e conservato nella basilica superiore di San Francesco di Assisi. La scena è accoppiata simmetricamente alla Crocifissione del transetto destro, dall'altro lato.

Crocifissione - Transetto Destro
La datazione degli affreschi di Cimabue è piuttosto discorde, sebbene negli studi più recenti si sia assestata a un periodo tra il 1277, anno dell'elezione al soglio pontificio di Niccolò III e il 1283 circa. La zona del transetto sinistro è decorata dalle Storie apocalittiche.

Per questa scena, forse la più notevole dell'intero ciclo, non è mai stata messa in dubbio l'autografia del maestro.

Gli affreschi di Cimabue sono in generale in condizioni mediocri o pessime. Non fa eccezione questa Crocifissione, che dovette essere una delle scene più importanti dell'intero ciclo, e che oggi si presenta sfigurata da abrasioni (in parte colmate dall'ultimo restauro) e con i colori quasi invertiti in negativo, per l'ossidazione della biacca dei colori chiari, diventati oggi scuri. Nella zona inferiore esistono tuttavia alcuni brani coi colori originali ancora visibili.


Il Cristo


Cristo sulla Croce si erge al centro del dipinto, vistosamente inarcato verso sinistra, come nelle noti croci lignee sagomate di Cimabue. La metà superiore, celeste, è affollata d'angeli che manifestano tutto il loro dolore, volando in cerchio attorno al braccio breve della croce, coprendosi il viso piangente, alzando le mani al cielo, e raccogliendo pietosamente il sangue di Gesù con delle ciotole.
Questi angeli saranno tenuti ben presenti da Giotto nella sua celebre Crocifissione della Cappella degli Scrovegni. Il capo del Cristo è particolarmente dolente, proteso in avanti anziché adagiato del tutto sulla spalla come nelle croci di Arezzo e di Firenze. Le braccia non sono parallele alla croce, ma se ne distaccano significando tutto il peso del martirio in corso.






Gli astanti


Nella metà inferiore, terrestre, il ritmo è reso altamente tragico dal triangolo di linee di forza, dato dalle pose drammatiche delle due figure ai lati della croce, la Maddalena a destra che distende le braccia e un ebreo che allunga il braccio quasi a toccare il perizoma prolungato di Cristo, che simboleggia il riconoscimento della figura di divina di Cristo da parte di alcuni astanti. Addirittura la Maddalena solleva anche un ginocchio, come se volesse lanciarsi sulla croce accanto a Gesù. Scrisse Adolfo Venturi: «non è più il crocifisso con ai lati le figure simmetriche del portaspugna e del portalancia, né quello con le istorie del suo martirio su un cartellone! Nuova è la scena in cui il dolore e l'odio irrompono da anime forti, le grida contrastano roboanti, i sentimenti si urtano nella tempesta del cielo e della terra». Nella lunga coda del perizoma, una novità iconografica, si moltiplicano le pieghe e le scanalature, con una tendenza al realismo senza schematizzazioni, verso un recupero del classicismo.


Ai lati si distendono due gruppi di figure. Quello di sinistra mostra Maria con la mano al petto, nel gesto tipico del dolente, mentre Giovanni le prende la mano per prendersene cura da allora in poi, secondo un episodio narrato solo nel Vangelo di Giovanni. Seguono le tre Marie e una folla di personaggi in secondo piano, tra cui si riconoscono numerosi uomini col capo coperto, gli Ebrei.










A destra invece si mischiano soldati romani e ed ebrei, nelle loro espressioni di perplessità (c'è chi si tocca la barba) e di scherno, ma qualcuno accenna a un ripensamento, portando un dito alla bocca in segno di dubbio, e afferrandosi il polso per indicare l'impotenza. Uno addirittura si batte il petto in segno di pentimento, seguendo un passo del Vangelo di Luca (23, 47). Tra queste figure, il volto giovanile dietro al centurione è pressoché identico a un personaggio nell'Imposizione del nome al Battista nei mosaici del Battistero di Firenze (che per questo fu attribuita a Cimabue). L'ultimo volto a destra in prima fila è molto caratterizzato fisiognomicamente, a differenza degli altri, ed è stato ipotizzato che si tratti di un autoritratto del pittore.

Il pittore mise i personaggi uno dietro l'altro per dare idea di profondità, ma non seppe risolvere il conflitto di come essi poggiassero al suolo: ecco che i pochi piedi dipinti (solo per le figure in primo piano), si pestano uno sull'altro, come nei mosaici bizantini di San Vitale a Ravenna. I pochi colori originari superstiti, sopravvissuti proprio in questa zona, dimostrano una grande raffinatezza, che doveva da un effetto di delicata magnificenza: rosa, ocra, verde marcio, marrone. Qui dopotutto era in corso la realizzazione della "più straordinaria visione di forme e di splendori che artisti siano mai riusciti ad attuare" fino ad allora.

San Francesco


Alla base di questo triangolo sta rannicchiato san Francesco, che è riconoscibile dalle stimmate e che si bagna col sangue di Cristo che scorre sulla montagnola del Golgota fino al teschio nascosto di Adamo. Francesco appare qui come intermediario tra l'evento sacro e il fedele. La sua presenza è stata interpretata anche come simbolo delle tribolazioni dell'ordine francescano secondo le dottrine apocalittiche di Pietro Olivi e Gioacchino da Fiore, come a dire che far soffrire Francesco e i suoi seguaci è come crocifiggere il Cristo una seconda volta.


La questione di Longino

L'uomo che riconosce Cristo, col capo velato (quindi ebreo) impugna il bastone del comando ed ha già il nimbo di santo: difficile è capire se è per Cimabue san Longino, oppure se il fiorentino tenga distaccate le figure del centurione illuminato (per quanto ebreo) e di colui che trafisse Gesù con la lancia; dopotutto la raffigurazione esplicita del soldato con la lancia nella Crocifissione del transetto destro è priva di nimbo. Un uomo con la lancia compare però dietro di lui, e gli fa eco tenendo una posizione analoga col braccio disteso: è forse lui Longino o è un inserviente? Le altre due figure ai lati l'uomo con l'aureola, in un elegante contrapposto simmetrico, inoltre impugnano scudo e lancia: sembra che Cimabue abbia voluto disarmare quella figura per sottolinearne agiograficamente la virtù senza impacci guerreschi. Secondo Chiara Frugoni l'uomo in primo piano è san Longino (che non è infrequente trovare rappresentato ora come ebreo ora come romano), mentre l'uomo che gli fa eco è un altro ebreo che illustra il passo del Vangelo di Luca, in cui si descrive il pentimento di una parte degli Ebrei.

In ogni caso, ammettere un santo tra i giudei che furono responsabili della crocifissione di Cristo (secondo la tradizione anti-giudaica da san Giovanni in poi) rappresenta un'apertura verso il mondo giudaico fino ad allora senza precedenti, spiegabile forse con l'opera di redenzione ed evangelizzazione universale portata avanti dai Francescani. Duccio di Buoninsegna ad esempio, nella Crocifissione della Maestà del Duomo di Siena, copiò la figura del riconoscitore di Cristo da Cimabue, ma ne omise il nimbo, facendolo ripiombare nell'anonimato della folla tumultuante. A tale ipotesi di accoglienza francescana può legarsi anche scelta di includere la preminenza della figura della Maddalena, la prostituta pentita. Il messaggio di Cristo sembra così dare i suoi primi frutti già appena dopo la Crocifissione, con le prime conversioni spontanee, allargandosi poi idealmente nell'espansione della comunità credente attuata tramite gli Evangelisti, poi tramite la Chiesa e infine arrivando a Francesco, il "nuovo evangelista", raffigurato ai piedi della croce.

Appare quindi un messaggio di speranza, che può riscattare anche chi ha errato, invece di condannarlo insindacabilmente.

Simone Martini - Storia di San Martino (Cappella di San Martino - Assisi)

Titolo dell'opera: Storia di San Martino
Autore: Simone Martini
Anno di esecuzione: 1316 - 1317
Luogo: Assisi (Basilica Inferiore)

La cappella di San Martino è la prima cappella a sinistra nella basilica inferiore di San Francesco d'Assisi. Voluta e finanziata dal cardinale Gentile Partino da Montefiore, fu interamente affrescata da Simone Martini nel 1313-1318. Il suo ciclo di affreschi è una delle opere più significative del maestro senese.







Partino da Montefiore
Gentile Partino da Montefiore era il cardinale della basilica dei Santi Silvestro e Martino ai Monti a Roma. Un documento del marzo 1312 testimonia lo stanziamento da parte del cardinale di 600 fiorini d'oro per costruire ed affrescare una cappella nella basilica inferiore di San Francesco. Nella primavera dello stesso anno il cardinale è documentato a Siena, in viaggio per Avignone in quanto incaricato di trasferire il tesoro pontificio presso la nuova sede francese. A Siena probabilmente si accordò con Simone Martini per l'affrescatura della cappella. Nell'ottobre dello stesso anno, il cardinale morì a Lucca, prima di raggiungere Avignone.

Simone Martini lavorò nella cappella in almeno tre fasi. Iniziò i lavori nel 1312-1313, lasciando sospesa la Maestà del Palazzo Pubblico di Siena a cui stava lavorando. In questa prima fase realizzò ad Assisi i disegni per le vetrate e forse iniziò gli affreschi. Tornò a Siena intorno al 1314 per ultimare la Maestà, per poi tornare di nuovo ad Assisi dopo il giugno del 1315. Qui iniziò la seconda fase con la realizzazione di tutti gli affreschi della cappella. Nel 1317 fu chiamato da Roberto d'Angiò a Napoli, ma subito dopo tornò ad Assisi, per ultimare (e in alcuni casi rifare) gli affreschi di santi a figura intera sotto l'arcone di ingresso. I lavori furono compiuti probabilmente entro il 1318.

Lo stile di Simone Martini in questi anni è realistico e oltretutto raffinato nei modi con cui vengono raffigurati i personaggi, i loro volti, le loro posture, il tocco delle loro mani. Simone è estremamente abile nella resa di linee fisionomiche dei volti a dare personaggi naturalistici, veri, tutt'altro che stereotipati. Ciò si nota proprio nei volti dei personaggi secondari degli affreschi quali i musici di corte nella scena dell'Investitura del santo a cavaliere o della guardia che svetta tra l'imperatore e il santo nella scena della Rinuncia alle armi o ancora nel volto del personaggio perplesso nella scena del Miracolo del fanciullo risuscitato. Il realismo lo si nota anche dalla cura con cui sono raffigurati tessuti e oggetti. Simone è un pittore cortese, laico anche nella rappresentazione di soggetti religiosi, quasi cavalleresco.



In questi affreschi Simone mostra anche di ricevere l'influenza di Giotto, che proprio in questi anni stava affrescando il transetto destro della stessa basilica. Risultati di quest'influenza sono la collocazione delle scene in contesti architettonici resi con un'opportuna resa prospettica e una maggiore attenzione per le vere fonti di luce nella resa dei chiaroscuri. Le volumetrie dei santi a figura intera del sottarco di ingresso, gli ultimi affreschi realizzati da Simone in ordine cronologico in questa cappella, sono un ulteriore avvicinamento allo stile di Giotto. Tuttavia Simone non si adeguò passivamente alla scuola fiorentina, anzi è chiara una divaricazione tra il suo modo di dipingere e quello giottesco a partire dallo stesso tema dei dipinti: non le storie di un santo popolare come san Francesco, ma un raffinato santo cavaliere, del quale Simone sottolineò alcuni aspetti cortesi della leggenda. 


Per esempio nella famosa scena dell'Investitura di san Martino, l'azione è ambientata in un palazzo, con i musici di corte magnificamente abbigliati e con un servitore con tanto di falcone da caccia in mano. Il contesto di Simone è più fiabesco e assolutamente notevole è lo studio realistico dei costumi e delle pose; l'individuazione fisionomica nei volti non ha pari in tutta la pittura dell'epoca, Giotto compreso. Anche la resa cromatica beneficia di un maggior repertorio di tinte.

In sintesi, con questi affreschi Simone si confermò come pittore laico, cortese, raffinato. Fu in questi anni che si concretizzò la sua capacità di ritrarre fisionomie naturali, gettando le basi per la nascita della ritrattistica.







Bibliografia

Marco Pierini, Simone Martini, Silvana Editore, Milano 2002.
Pierluigi Leone de Castris, Simone Martini, Federico Motta Editore, Milano 2003.

Giotto - Isacco ripudia Esaù

Titolo dell'opera: Isacco ripudia Esaù
Autore: Giotto
Anno di esecuzione: 1291-1295
Luogo: Assisi (Basilica superiore)


Esaù respinto da Isacco è un affresco (300x300 cm) attribuito al Maestro di Isacco (forse il giovane Giotto?), databile al 1291-1295 circa e situato nella fascia superiore della parete destra della Basilica superiore di Assisi.

Le due storie che danno il nome al cosiddetto Maestro di Isacco (Benedizione di Isacco a Giacobbe ed Esaù respinto da Isacco) sono state oggetto di un intenso dibattito tra gli studiosi, nel tentativo di dare un nome all'artista innovativo che, distaccandosi dai modi di Cimabue, andava sviluppando una maggiore volumetria dei soggetti e tridimensionalità della rappresentazione.

Isacco ripudia Esaù (Jacopo Torriti? )
Alcuni, confrontando le scene con quelle vicine di Jacopo Torriti e con i mosaici di Santa Maria in Trastevere di Pietro Cavallini, hanno ipotizzato che potesse trattarsi di un maestro romano, altri, in maggioranza, hanno pensato a un toscano, magari il giovane Giotto (da Thode in poi, 1885). I dubbi sulla paternità giottesca delle sottostanti Storie di san Francesco hanno complicato anche l'identificazione del Maestro di Isacco, arrivando ad ipotizzare che sotto tale figura si celi un maestro leggermente più anziano di Giotto, a capo di una bottega ampia, responsabile di diverse scene del registro superiore della basilica, tra cui anche la volta dei Dottori della Chiesa. Ipotesi più isolate hanno tirato in ballo anche Arnolfo di Cambio, nell'inedita veste di pittore.





Giotto - Presepe di Greccio

Titolo dell'opera: Istituzione del Presepe
Autore: Giotto
Anno di esecuzione: 1295 - 1299
Luogo: Assisi (Basilica Superiore)


Il Presepe di Greccio è la tredicesima delle ventotto scene del ciclo di affreschi delle Storie di san Francesco della Basilica superiore di Assisi, attribuiti a Giotto. Fu dipinta verosimilmente tra il 1295 e il 1299 e misura 230x270 cm.


Questo episodio appartiene alla serie della Legenda maior (X,7) di san Francesco: "Come il beato Francesco, in memoria del Natale di Cristo, ordinò che si apprestasse il presepe, che si portasse il fieno, che si conducessero il bue e l'asino; e predicò sulla natività del Re povero; e, mentre il santo uomo teneva la sua orazione, un cavaliere scorse il Gesù Bambino in luogo di quello che il santo aveva portato."

Durante la notte di Natale del 1223, a Greccio (in provincia di Rieti, sulla strada che da Stroncone prosegue verso il reatino), Francesco rievocò la nascita di Gesù, organizzando una rappresentazione vivente di quell'evento. Secondo le agiografie, durante la Messa, sarebbe apparso nella culla un bambino in carne ed ossa, che Francesco prese in braccio. Da questo episodio ebbe origine la tradizione del presepe.
Nonostante le fonti, Giotto pone la scena nel presbiterio che ricorda la Basilica inferiore di Assisi.
Già tra gli affreschi meno leggibili del ciclo, fu restaurato una prima volta nel 1798 dal Fea (resoconto pubblicato nel 1820).


La scena, oltre che una delle più famose, è uno straordinario documento dell'epoca. Nessun pittore si era mai spinto a tanto realismo: lo spettatore osserva dalla parte di solito riservata ai soli sacerdoti e religiosi (da un ipotetico punto di vista nell'abside), dove sono rappresentati con minuzia e vivace descrittività le caratteristiche dell'ambiente oltre il tramezzo che lo separa dalla navata: un ciborio che ricorda quelli di Arnolfo di Cambio, i frati che cantano nel coro guardando al reggilibro in alto, un pulpito visto dal lato dell'ingresso ed una croce lignea sagomata appesa, vista dal dietro, con tutti i rinforzi, e sapientemente raffigurata obliqua mentre pende verso la navata.


Una folla di persone assiste alla scena in primo piano di Francesco con il santo Bambino tra le mani (provvisto pure lui di aureola), ma le donne non possono entrare e osservano dalla porta. Molto reale è la collocazione dei personaggi nello spazio, che appaiono su piani diversi senza dare l'effetto di librarsi nell'aria o di schiacciarsi l'uno sull'altro, come nelle tavole di pittori di poco più antiche. Solo i frati sporgono in alto perché sono in piedi sugli stalli del coro di cui si intuisce la presenza solo da un piccolo dettaglio accanto alla porta. Essi hanno le bocche aperte perché stanno cantando e lo sguardo diretto al badalone (leggio) con un codice che riporta le parole e la musica.





Da Wilipedia: Presepe di Greccio

Bibliografia

Maurizia Tazartes, Giotto, Rizzoli, Milano 2004. ISBN non esistente
Edi Baccheschi, L'opera completa di Giotto, Rizzoli, Milano 1977. ISBN non esistente

Pietro Lorenzetti - Flagellazione davanti a Pilato

Titolo dell'opera: Flagellazione davanti a Pilato
Anno di esecuzione: 1310 - 1319
Luogo: Assisi (Transetto sinistro)


La scena è celebre per la complicata articolazione architettonica e per la vivacità dei dettagli. A differenza delle scene precedenti, è ormai giorno e sono sparite le stelle: l'artista in più scene dimostrò un vivo interesse per la rappresentazione dello scorrere del tempo.

Sulla piattaforma rialzata e decorata da mosaici cosmateschi della stanza di Pilato, retta da sottili colonnine e aperta verso l'esterno, sta svolgendosi la flagellazione di Cristo. Pilato, affiancato da due armigeri in sfavillanti armature, dà il via al martirio con un gesto d'imperio. 


















Il Cristo subisce paziente la flagellazione, operata da due sgherri, mentre da sinistra, dalla porta, una piccola folla assiste alla scena, spesso appoggiandosi alla balaustra e abbracciando la colonnetta d'angolo.

La parte superiore dell'affresco mostra una ricca decorazione architettonica, fatta di arcate decorate da piccole volute e da statue, le quali sembrano quasi prendere vita: dei leoni variamente atteggiati e putti, uno dei quali tiene un levriero, uno suona in un corno, uno guarda un cane che insegue una lepre girandogli intorno. A destra poi è presente una piccola e rarissima, per l'epoca, scena di genere: da una trifora un bambino, osservato placidamente dalla madre, tiene una scimmietta al guinzaglio, che si avventura sul cornicione dentellato. Si è provato a spiegare questo curiosissimo inserto in termini esegesi o evangelici (come la rappresentazione della moglie e del figlio di Pilato), ma la critica più recente tende ad ammettere la possibilità che il Lorenzetti fosse affascinato dalla vita quotidiana, inserendola nelle scene di contorno del ciclo, come era avvenuto nell' Ultima Cena dove un servo dà da mangiare gli avanzi a un cagnolino.

Bibliografia: Chiara Frugoni

Pietro Lorenzetti - Ultima Cena

Titolo dell'opera: Ultima Cena
Anno di esecuzione: 1310 - 1319
Luogo: Assisi (Transetto sinistro)


L’opera fa parte del ciclo “Storie della passione di Cristo” e mostra la scena dell' Ultima Cena in un originale padiglione esagonale, dove gli apostoli sono seduti in circolo attorno a Gesù, entro una prospettiva ribaltata e dilatata. 


Il fulcro sono Cristo e Giovanni, appoggiato alla sua spalla, che sono stati paragonati a "una perla fra le valve di una conchiglia semiaperta". 
















Ben studiata è la disposizione degli apostoli, così come il digradare delle travi nel soffitto, illuminate dal basso su uno sfondo notturno (si vede un sottilissimo spicchio di luna in alto a sinistra). 


Lorenzetti fu uno dei primi artisti (forse il primo in assoluto) a richiamare l'attenzione dello spettatore sul variare del tempo atmosferico nello scorrere delle ore. 









A sinistra poi si apre un celebre scorcio di cucina, in cui un uomo ben vestito, forse il padrone della locanda, si rivolge a un servitore con un gesto colloquiale, poggiandogli una mano sulla spalla e indicando col pollice dell'altra la destra, come a dirgli di affrettarsi a servire gli ospiti. Con tale gesto lega di fatto le due parti. L'uomo inginocchiato sta infatti pulendo i piatti davanti al camino col fuoco scoppiettante, dove un cagnolino sta leccando gli avanzi e un gatto riposa accucciato. Si tratta di uno spaccato di vita quotidiana veramente innovativo per l'epoca, che mai si trova, ad esempio, nelle composizioni "classiche" di Giotto e dei suoi seguaci più stretti. Alcuni hanno provato anche a spiegare la scena in termini simbolici ed esegetici, giungendo a possibili soluzioni, sebbene non conclusive. Ad esempio si è posto l'accento sulla luce che sprigiona il falò generando le ombre di tutta la scena (a partire da quella del vicino cagnolino e del gatto), che alluderebbe al sacrificio del fuoco dell'Antico Testamento, che si rinnova nell'Eucarestia e nell'imminente crocifissione. Il cagnolino può ricordare un passo di San Bonaventura in cui si parla, a proposito della Cena del Signore, di coloro che sono esclusi dal banchetto eucaristico perché vogliono la carne reale dell'agnello sacrificale come i cani, a differenza di quelli che cercano la carne spirituale. Strano sarebbe però che il cane simboleggi i peccatori, mentre il vicino gatto niente. Inoltre appare forzata la lettura dell'asciugamano con cui si puliscono i piatti con gli scialli liturgici del sacrificio, anche perché gli stessi ricompaiono identici nella pala della Natività della Vergine a coprire i cesti delle vivande portate a sant'Anna: si tratta semplicemente di oggetti di uso comune tratti dalla quotidianità di allora.
Un pezzo di virtuosistica bravura è anche la stanzetta in sé, con la cappa del camino scorciata obliquamente, nonché la presenza di mensole sulle quali il pittore creò delle piccole "nature morte", care al suo fare artistico. Le statue di putti con cornucopie sotto i pinnacoli del padiglione sono più vive che mai, secondo una tecnica bizzarra e fantasiosa che si ritrova anche in altre scene, in particolar modo nella Flagellazione.




Bibliografia: Chiara Frugoni