Giotto - Compianto sul Cristo morto

Titolo dell'opera: Compianto sul Cristo morto
Autore: Giotto
Anno di esecuzione: 1303 - 1305
Luogo: Padova (Oratorio degli Scrovegni)


Il Compianto sul Cristo morto è un affresco (200x185 cm) di Giotto, databile al 1303-1305 circa e facente parte del ciclo della Cappella degli Scrovegni a Padova. È compreso nelle Storie della Passione di Gesù del registro centrale inferiore, nella parete sinistra guardando verso l'altare.

La scena, la più drammatica dell'intero ciclo e una delle più celebri, mostra una spiccata conoscenza delle regole della pittura fin dalla composizione. Gesù è adagiato in basso a sinistra, stretto dalla madre che, in maniera toccante, avvicina il proprio viso a quello del figlio. Tutta una serie di linee di sguardi e di forza dirigono immediatamente l'attenzione dello spettatore su questo angolo, a partire dall'andamento della roccia dello sfondo che degrada verso il basso. Le pie donne reggono le mani di Cristo e la Maddalena gemente ne raccoglie i piedi. Sciolta e naturalistica è la posa di san Giovanni, che si piega distendendo le braccia indietro, derivata forse dal Sarcofago di Melagro che era a Padova. Dietro a destra stanno le figure di Nicodemo e Giuseppe d'Arimatea, mentre a sinistra, in basso, una figura seduta di spalle crea una massa scultorea. A sinistra accorrono altre donne in lacrime, dalle pose studiate e drammatiche. In alto gli angeli accorrono con altre pose di disperazione, scorciati con grande varietà di pose, partecipando a una sorta di drammaticità cosmica che investe anche la natura: l'alberello in alto a destra è infatti secco.

L'unico addolcimento è dato dal concerto di colori pastello, estremamente raffinato, che orchestra i toni delle vesti, con una diversa incidenza luminosa che arriva, negli esempi più eclatanti, ad effetti di cangiantismo cromatico: tali finezze testimoniano come questa scena, pressoché al centro della parete, fosse una delle più curate del ciclo, sicuramente autografa e realizzata in modo da catturare l'attenzione del pubblico.

Liberata dalle rigidità bizantine, la scena fu presa a modello per intere generazioni di artisti successivi.

Una Deposizione era stata già dipinta forse dal giovane Giotto nella basilica superiore di Assisi.

Da Wilipedia: Compianto sul Cristo morto
Bibliografia

Maurizia Tazartes, Giotto, Rizzoli, Milano 2004. ISBN non esistente
Edi Baccheschi, L'opera completa di Giotto, Rizzoli, Milano 1977. ISBN non esistente

Cimabue - Crocifissione

Titolo dell'opera: Crocifissione - Transetto sinistro
Autore: Cimabue
Anno di esecuzione: 1277 - 1280
Luogo: Assisi (Basilica superiore)



La Crocifissione del transetto sinistro è un affresco (circa 350x300 cm) di Cimabue e aiuti, databile attorno al 1277-1283 circa e conservato nella basilica superiore di San Francesco di Assisi. La scena è accoppiata simmetricamente alla Crocifissione del transetto destro, dall'altro lato.

Crocifissione - Transetto Destro
La datazione degli affreschi di Cimabue è piuttosto discorde, sebbene negli studi più recenti si sia assestata a un periodo tra il 1277, anno dell'elezione al soglio pontificio di Niccolò III e il 1283 circa. La zona del transetto sinistro è decorata dalle Storie apocalittiche.

Per questa scena, forse la più notevole dell'intero ciclo, non è mai stata messa in dubbio l'autografia del maestro.

Gli affreschi di Cimabue sono in generale in condizioni mediocri o pessime. Non fa eccezione questa Crocifissione, che dovette essere una delle scene più importanti dell'intero ciclo, e che oggi si presenta sfigurata da abrasioni (in parte colmate dall'ultimo restauro) e con i colori quasi invertiti in negativo, per l'ossidazione della biacca dei colori chiari, diventati oggi scuri. Nella zona inferiore esistono tuttavia alcuni brani coi colori originali ancora visibili.


Il Cristo


Cristo sulla Croce si erge al centro del dipinto, vistosamente inarcato verso sinistra, come nelle noti croci lignee sagomate di Cimabue. La metà superiore, celeste, è affollata d'angeli che manifestano tutto il loro dolore, volando in cerchio attorno al braccio breve della croce, coprendosi il viso piangente, alzando le mani al cielo, e raccogliendo pietosamente il sangue di Gesù con delle ciotole.
Questi angeli saranno tenuti ben presenti da Giotto nella sua celebre Crocifissione della Cappella degli Scrovegni. Il capo del Cristo è particolarmente dolente, proteso in avanti anziché adagiato del tutto sulla spalla come nelle croci di Arezzo e di Firenze. Le braccia non sono parallele alla croce, ma se ne distaccano significando tutto il peso del martirio in corso.






Gli astanti


Nella metà inferiore, terrestre, il ritmo è reso altamente tragico dal triangolo di linee di forza, dato dalle pose drammatiche delle due figure ai lati della croce, la Maddalena a destra che distende le braccia e un ebreo che allunga il braccio quasi a toccare il perizoma prolungato di Cristo, che simboleggia il riconoscimento della figura di divina di Cristo da parte di alcuni astanti. Addirittura la Maddalena solleva anche un ginocchio, come se volesse lanciarsi sulla croce accanto a Gesù. Scrisse Adolfo Venturi: «non è più il crocifisso con ai lati le figure simmetriche del portaspugna e del portalancia, né quello con le istorie del suo martirio su un cartellone! Nuova è la scena in cui il dolore e l'odio irrompono da anime forti, le grida contrastano roboanti, i sentimenti si urtano nella tempesta del cielo e della terra». Nella lunga coda del perizoma, una novità iconografica, si moltiplicano le pieghe e le scanalature, con una tendenza al realismo senza schematizzazioni, verso un recupero del classicismo.


Ai lati si distendono due gruppi di figure. Quello di sinistra mostra Maria con la mano al petto, nel gesto tipico del dolente, mentre Giovanni le prende la mano per prendersene cura da allora in poi, secondo un episodio narrato solo nel Vangelo di Giovanni. Seguono le tre Marie e una folla di personaggi in secondo piano, tra cui si riconoscono numerosi uomini col capo coperto, gli Ebrei.










A destra invece si mischiano soldati romani e ed ebrei, nelle loro espressioni di perplessità (c'è chi si tocca la barba) e di scherno, ma qualcuno accenna a un ripensamento, portando un dito alla bocca in segno di dubbio, e afferrandosi il polso per indicare l'impotenza. Uno addirittura si batte il petto in segno di pentimento, seguendo un passo del Vangelo di Luca (23, 47). Tra queste figure, il volto giovanile dietro al centurione è pressoché identico a un personaggio nell'Imposizione del nome al Battista nei mosaici del Battistero di Firenze (che per questo fu attribuita a Cimabue). L'ultimo volto a destra in prima fila è molto caratterizzato fisiognomicamente, a differenza degli altri, ed è stato ipotizzato che si tratti di un autoritratto del pittore.

Il pittore mise i personaggi uno dietro l'altro per dare idea di profondità, ma non seppe risolvere il conflitto di come essi poggiassero al suolo: ecco che i pochi piedi dipinti (solo per le figure in primo piano), si pestano uno sull'altro, come nei mosaici bizantini di San Vitale a Ravenna. I pochi colori originari superstiti, sopravvissuti proprio in questa zona, dimostrano una grande raffinatezza, che doveva da un effetto di delicata magnificenza: rosa, ocra, verde marcio, marrone. Qui dopotutto era in corso la realizzazione della "più straordinaria visione di forme e di splendori che artisti siano mai riusciti ad attuare" fino ad allora.

San Francesco


Alla base di questo triangolo sta rannicchiato san Francesco, che è riconoscibile dalle stimmate e che si bagna col sangue di Cristo che scorre sulla montagnola del Golgota fino al teschio nascosto di Adamo. Francesco appare qui come intermediario tra l'evento sacro e il fedele. La sua presenza è stata interpretata anche come simbolo delle tribolazioni dell'ordine francescano secondo le dottrine apocalittiche di Pietro Olivi e Gioacchino da Fiore, come a dire che far soffrire Francesco e i suoi seguaci è come crocifiggere il Cristo una seconda volta.


La questione di Longino

L'uomo che riconosce Cristo, col capo velato (quindi ebreo) impugna il bastone del comando ed ha già il nimbo di santo: difficile è capire se è per Cimabue san Longino, oppure se il fiorentino tenga distaccate le figure del centurione illuminato (per quanto ebreo) e di colui che trafisse Gesù con la lancia; dopotutto la raffigurazione esplicita del soldato con la lancia nella Crocifissione del transetto destro è priva di nimbo. Un uomo con la lancia compare però dietro di lui, e gli fa eco tenendo una posizione analoga col braccio disteso: è forse lui Longino o è un inserviente? Le altre due figure ai lati l'uomo con l'aureola, in un elegante contrapposto simmetrico, inoltre impugnano scudo e lancia: sembra che Cimabue abbia voluto disarmare quella figura per sottolinearne agiograficamente la virtù senza impacci guerreschi. Secondo Chiara Frugoni l'uomo in primo piano è san Longino (che non è infrequente trovare rappresentato ora come ebreo ora come romano), mentre l'uomo che gli fa eco è un altro ebreo che illustra il passo del Vangelo di Luca, in cui si descrive il pentimento di una parte degli Ebrei.

In ogni caso, ammettere un santo tra i giudei che furono responsabili della crocifissione di Cristo (secondo la tradizione anti-giudaica da san Giovanni in poi) rappresenta un'apertura verso il mondo giudaico fino ad allora senza precedenti, spiegabile forse con l'opera di redenzione ed evangelizzazione universale portata avanti dai Francescani. Duccio di Buoninsegna ad esempio, nella Crocifissione della Maestà del Duomo di Siena, copiò la figura del riconoscitore di Cristo da Cimabue, ma ne omise il nimbo, facendolo ripiombare nell'anonimato della folla tumultuante. A tale ipotesi di accoglienza francescana può legarsi anche scelta di includere la preminenza della figura della Maddalena, la prostituta pentita. Il messaggio di Cristo sembra così dare i suoi primi frutti già appena dopo la Crocifissione, con le prime conversioni spontanee, allargandosi poi idealmente nell'espansione della comunità credente attuata tramite gli Evangelisti, poi tramite la Chiesa e infine arrivando a Francesco, il "nuovo evangelista", raffigurato ai piedi della croce.

Appare quindi un messaggio di speranza, che può riscattare anche chi ha errato, invece di condannarlo insindacabilmente.

Duccio - Maestà Rucellai

Titolo dell'opera: Maestà Rucellai
Autore: Duccio di Buoninsegna
Anno di esecuzione: 1285
Luogo: Firenze (Galleria degli Uffizi)


La tavola è la più grande che ci sia pervenuta riguardo al Duecento e venne dipinta dal pittore senese, allora giovane e in patria straniera (Firenze e Siena erano due repubbliche diverse).

L'opera si ispira alla Maestà del Louvre di Cimabue, dipinta circa cinque anni prima, con la stessa disposizione del trono in tralice, la stessa inclinazione dei volti, i medesimi gesti della madre col figlio, la stessa impostazione della cornice. Il tema però è qui rappresentato con una nuova sensibilità, più "gotica", carico di ancora maggiore dolcezza nei volti e nella dolente umanità che supera i rigidi schematismi bizantini, facendo eco all'importanza tributata nel Duecento ai culti mariani.

La Madonna Rucellai di Duccio è più aristocratica e raffinata. I volti di tutti i personaggi, sebbene ancora enigmatici, sono più dolci e gentili, secondo un distacco dall'opera di Cimabue che non era ancora evidente nell'antica Madonna Gualino di Duccio (1280-1283), divenendo percettibile nella Madonna di Crevole (1283-1284) e che in questa opera del 1285 diventa più evidente: la Vergine sembra quasi abbozzare un sorriso. Ciò dà all'immagine un senso di maggiore aristocraticità, innestata sulla solida maestosità e l'umana rappresentazione di Cimabue.



Con tutta probabilità Duccio ebbe come ispirazione anche gli oggetti quali smalti, miniature e avori provenienti dalla Francia, di sapore innovativamente gotico. Sono molti infatti gli elementi di stile gotico presenti nell'opera: mancano le lumeggiature dorate dell'agemina, sostituite da delicate modulazioni di colore e pieghettature spesso cadenti che danno sostanza alle figure. Inoltre Duccio vi immise un nervoso ritmo lineare, come sottolineato dal capriccioso orlo dorato della veste di Maria, che disegna una complessa linea arabescata che va dal petto fino ai piedi, in opposizione alle rigide e astratte pieghe a zig zag della pittura bizantina. La gamma cromatica è ricca e varia, come già andava conquistando la scuola senese, e conta colori che si esaltano a vicenda come il rosa smalto, il rosso vinato e il blu chiaro. Le aureole della Madonna e del Bambino sono decorate da raffinati motivi che creano un'aura di impalpabile trasparenza. 



I sei angeli che circondano la Madonna sono perfettamente simmetrici (forse dipinti tramite sagome cartonate, i cosiddetti "patroni") e stanno irrealisticamente inginocchiati uno sopra l'altro ai lati del trono, senza una minima sensazione di piani in profondità, come in Cimabue. Del resto anche nel trono sono più curati i decori preziosi, con bifore e trifore gotiche e con il sontuoso drappo di seta sullo schienale.

La cornice modanata ha un ruolo fondamentale nella composizione, ribadito dal recente restauro. Essa è in parte d'oro e in parte dipinta, con una fascia interrotta da clipei con busti di profeti biblici e santi domenicani, tra i quali il fondatore dei Laudesi san Pietro Martire. Queste figure, pur nelle dimensioni ridotte, presentano una notevole distinzione nelle singole fisionomie.

Da Wikipedia: Madonna Ruccelai



Bibliografia

Enzo Carli, Duccio, Milano 1952
Enio Sindona, Cimabue e il momento figurativo pregiottesco, Rizzoli Editore, Milano, 1975. ISBN non esistente
Luciano Bellosi, voce Duccio in Enciclopedia dell'Arte Medioevale vol. V, Roma 1994
Luciano Bellosi, Duccio. La Maestà, Milano 1998
Pierluigi De Vecchi ed Elda Cerchiari, I tempi dell'arte, volume 1, Bompiani, Milano 1999.
Alessandro Bagnoli, Roberto Bartalini, Luciano Bellosi, Michel Laclotte, Duccio. Alle origini della pittura senese, Catalogo della mostra, Silvana Editore, Milano 2003.
AA. VV., Galleria degli Uffizi, collana I Grandi Musei del Mondo, Roma 2003.
Gloria Fossi, Uffizi, Giunti, Firenze 2004, pag. 112. ISBN 88-09-03675-1

Ambrogio Lorenzetti - Madonna col Bambino e Santa Maria Maddalena e Santa Dorotea

Titolo dell'opera: Madonna col Bambino
Autore: Ambrogio Lorenzetti
Anno di esecuzione: 1340 circa
Luogo: Siena (Pinacoteca nazionale)



I tre dipinti erano originariamente nella chiesa dell'ex convento di Santa Petronilla a Siena (in origine era la chiesa degli Umiliati), e sono stati ricomposti in un trittico nella Pinacoteca di Siena. La loro provenienza giustifica la pergamena tra le mani di Gesù: "beati pauperes", benedetti siate voi poveri, perché vostro è il regno di Dio (Luca, 6,20). Il bambino ha amorevolmente un braccio intorno al collo di sua madre, mentre la Vergine tiene il suo volto accanto al Bambino guardandolo con uno sguardo intenso e penetrante. E 'questo sguardo di Maria, pienamente consapevole e con il dolore di chi già sa della passione che attende il Salvatore ed il dolore che li attende entrambi, che rappresenta la caratteristica del tutto nuova e originale dei dipinti di Ambrogio Lorenzetti,  nel soggetto della Madonna col Bambino; Lorenzetti dedica molta attenzione a questa espressione.

I due santi ai lati, Maria Maddalena a sinistra e S. Dorotea a destra, partecipano a questo momento di profonda intimità con i loro gesti calmi.

Nel trittico entrambe le sante continuano con le meditazioni dolorose della Vergine; Maria Maddalena mostra l'Uomo sul suo cuore e la coppa di unguento, in memoria di quello che lei ha portato al sepolcro già vuoto; Dorothea, d'altra parte, che sta guardando dritto Gesù negli occhi, ed a lui mostra il mazzo di fiori, simbolo del suo martirio e dei giardini del Paradiso, dove il Salvatore è in attesa per lei. La vita terrena di Cristo è raccontata nella splendida predella contenente il Compianto sul Cristo morto.

Gotico

Le origini del Gotico


Il gotico è una fase della storia dell'arte occidentale che, da un punto di vista cronologico, inizia all'incirca alla metà del XII secolo in Francia settentrionale, nella regione intorno a Parigi, per poi diffondersi in tutta l'Europa e termina, in alcune aree, anche oltre il XVI secolo, per lasciare il suo posto al linguaggio architettonico di ispirazione classica, recuperato nel Rinascimento italiano e da qui irradiatosi nel resto del continente a partire dal XV secolo.

Il gotico fu un fenomeno di portata europea dalle caratteristiche molto complesse e variegate, che interessò tutti i settori della produzione artistica, portando grandi sviluppi anche nelle cosiddette arti minori: oreficeria, miniatura, intaglio di avorio, vetrate, tessuti, ecc.

La nascita ufficiale dello stile viene identificata in architettura, con la costruzione del coro dell'Abbazia di Saint-Denis a Parigi, consacrata nel 1144. Dall'Île-de-France le novità si diffusero con modi e tempi diversi in Inghilterra, Germania, Spagna, Italia, Austria, Boemia, Ungheria, Scandinavia, Polonia, Transilvania, Moldavia, diversificandosi ed adattandosi ad un grande numero di committenze e scopi diversi.

Per esempio in Spagna e in Inghilterra il gotico segna la nascita delle monarchie nazionali, mentre in altre zone è espressione dei poteri feudali, o ancora dei liberi comuni dominati dalla nuova borghesia urbana. In epoca gotica vi fu uno stretto rapporto tra arte e fede cristiana, ma fu anche il periodo nel quale rinacque l'arte laica e profana. Se in alcuni ambiti si cercarono espressivi effetti anti-naturalistici, in altre (come nella rinata scultura) si assistette al recupero dello studio del corpo umano e degli altri elementi quotidiani.

A causa della sua provenienza francese, in età medievale l'architettura gotica era chiamata opus francigenum. A Venezia, invece, venne conosciuta come modo di costruire "alla tedesca". Il termine "gotico", propriamente "dei goti", antico popolo germanico, venne usato per la prima volta per indicare questo stile artistico e architettonico da Giorgio Vasari nel XVI secolo come sinonimo di nordico, barbarico, capriccioso, contrapposto alla ripresa del linguaggio classico greco-romano del Rinascimento.

La perdita della connotazione negativa del termine risale alla seconda metà del Settecento quando, prima in Inghilterra e in Germania, si ebbe una rivalutazione di questo periodo della storia dell'arte, che si tradusse anche in un vero e proprio revival (il Neogotico), che attecchì gradualmente anche in Francia, in Italia e parte dei paesi anglo-sassoni.

La novità più originale dell'architettura gotica è la scomparsa delle spesse masse murarie tipiche del romanico: il peso della struttura non viene più assorbito dalle pareti, ma distribuito su pilastri e una serie di strutture secondarie poste all'esterno degli edifici. Nacquero così le pareti di luce, coperte da magnifiche vetrate, alle quali corrispondeva fuori un complesso reticolo di elementi di scarico delle forze. Gli archi rampanti, i pinnacoli, gli archi di scarico sono tutti elementi strutturali, che contengono e indirizzano al suolo le spinte laterali della copertura, mentre le murature di tamponamento perdono importanza, sostituite dalle vetrate. La straordinaria capacità degli architetti gotici non si esaurisce nella nuova struttura statica: gli edifici, liberati dal limite delle pareti in muratura, si svilupparono con slancio verticale, arrivando a toccare altezze ai limiti delle possibilità della statica.

In Inghilterra si ebbe un ulteriore sviluppo della volta a crociera con la volta a sei spicchi e poi a raggiera o a ventaglio: soluzioni che permettevano un'ancora migliore distribuzione del peso. La cattedrale gotica fu concepita come una copia del Paradiso, perciò spesso al suo ingresso fu scolpito il Giudizio Universale.

Il gotico in Italia ha caratteristiche che lo distinguono notevolmente da quello del luogo d'origine dell'architettura gotica, cioè la Francia, e dagli altri paesi europei in cui questo linguaggio si è diffuso (cioè l'Inghilterra e la Germania). In particolare non viene recepita l'innovazione tecnica e l'arditezza strutturale delle cattedrali francesi, preferendo mantenere la tradizione costruttiva consolidata nei secoli precedenti, e anche dal punto di vista estetico e formale non trova un grande sviluppo lo slancio verticale quasi estatico dell'architettura d'oltralpe. Se da un lato quindi c'era stata un'applicazione precoce di elementi gotici in (gli archi a sesto acuto di retaggio arabo nell'Italia meridionale in età normanna), dall'altro la tradizione romanica, influenzata dai modelli bizantini, paleocristiani e classici, resistette al principio dell'annullamento delle pareti. Ciò fu dovuto probabilmente anche a questioni puramente pratiche: il clima italiano avrebbe fatto negli edifici coperti di vetrate un "effetto serra" nei mesi estivi, per cui la soluzione preferita fu quella di mantenere strutture in massiccia muratura, più fresche, sulle quali si stendevano preziose decorazioni ad affresco. Si ebbe quindi in Italia un compromesso tra romanico e gotico, senza eccessivi slanci in altezza e riduzioni scheletriche delle masse murarie.

Una possibile periodizzazione dell'architettura gotica italiana contempla una fase iniziale nel XII secolo con lo sviluppo dell'architettura cistercense, una fase successiva dal 1228 al 1290 di "primo gotico"; le realizzazioni dal 1290 al 1385 sono considerate di "gotico maturo" ed infine l'ultima fase dal 1385 fino al XVI secolo con l'inizio e la prosecuzione di cantieri "tardo gotici" come al Duomo di Milano o di Napoli ed alla Basilica di San Petronio a Bologna.

L'Italia fu una delle ultime nazioni europee dove si sviluppò l'arte gotica. L'architettura, come in altre parti dell'Europa, è all'inizio un prodotto di importazione. Il vettore principale è costituito dagli edifici dell'ordine benedettino cistercense, che dalla zona d'origine borgognona, in Francia, si espanse in tutta l'Europa occidentale.

L'architettura dell'ordine cistercense costituiva un sotto-linguaggio particolare dell'edilizia gotica. Si tratta infatti di un'architettura che accoglie le principali innovazioni già espresse nelle cattedrali dell'Île-de-France, ma in forma molto più moderata e in un certo senso "ascetica". Viene completamente bandita la decorazione figurativa, le vetrate hanno un'estensione ridotta e sono prive di colore, il verticalismo è frenato, all'esterno non sono ammessi torri o campanili. Viene però utilizzata la volta a crociera archiacuta a campate rettangolari e i pilastri a fascio che proseguono nelle costolonature delle volte. I capitelli presentano ornamentazioni semplicissime e prevalentemente non figurative. La lavorazione della pietra è accuratissima, e lo spazio definito dai tipici assetti planimetrici modulari e dalla nettezza e politezza delle membrature risulta, oltre che razionale, intensamente astratto. L'architettura di questo ordine si diffonde per tutto l'Occidente, e l'incontro del nuovo linguaggio con la tradizione locale costituì anche in Italia la base per gli sviluppi successivi.

I primi esempi di abbazie gotiche in Italia sono il complesso di Fossanova nel Lazio (1187-1206), l'Abbazia di Casamari, terminata nel 1217, o l'Abbazia di San Galgano, vicino Siena, iniziata nel 1227 e finanziata da Federico II. Nell'ultimo esempio, più tardo, si nota un'evoluzione del modello con un assottigliamento dei pilastri e un maggior numero di aperture che garantiscono una migliore luce.

L'architettura cistercense fornì spunti significativi agli ordini mendicanti, come francescani, domenicani, e agostiniani, nella cospicua fase di inurbamento dei relativi insediamenti che in Italia ha luogo fra la metà del Duecento e la metà del secolo seguente. Fra le note distintive di questi ordini vi era infatti una certa enfasi sulla decorosa povertà e semplicità degli edifici sacri e la necessità di avere ampie navate coperte con tetto a vista, in modo tale che i fedeli potessero ascoltare le prediche e seguire i riti senza ingombri visivi, come invece avveniva nelle cattedrali di assetto basilicale.

Un esempio precoce di accenni significativi di grammatica gotica (su una sintassi ancora tardo-romanica), è dato dalla basilica di Sant'Andrea a Vercelli (1219-1227), finanziata dal cardinale Guala Bicchieri che era stato legato al pontificio in Francia e quindi aveva potuto ammirare le nuove cattedrali. Già la facciata è molto originale, con l'innesto di contrafforti a forma tubolare e di due esili torri ai lati, mentre i portali strombati presentano ancora archi a tutto sesto e le gallerie di loggette ricordano gli esiti del romanico lombardo e renano. A parte la singolare presenza di archi rampanti, l'interno sa decisamente più di gotico, per le volte a crociera ogivali dai costoloni bicromi, gettate su pilastri 'incantonati' da colonnini serventi.

Un altro esempio coevo è il grandioso Battistero di Parma, dove lavorò Benedetto Antelami.

Da Wikipedia: Gotico

Cimabue - Maestà del Louvre

Titolo dell'opera: Maestà
Autore: Cimabue
Anno di esecuzione: 1280
Luogo: Louvre



Verso il 1280 Cimabue eseguì la Maestà del Louvre, ritenuta anteriore alla Maestà di Santa Trinita. Il trono è infatti disegnato con un'assonometria intuitiva, non con la pseudo-prospettiva frontale come nell'altra tavola. È simile a quello della Maestà dipinta da Cimabue stesso nella Basilica inferiore di Assisi (databile tra il 1278 e il 1280), con i gradini in primo piano che invece seguono una prospettiva frontale ribaltata, che suscita un certo senso di instabilità e piattezza.

Gli angeli invece sono disposti in piani successivi, dando il senso di scansione spaziale, sebbene rispetto ad Assisi siano più schematici: ciò ha fatto pensare a una datazione anteriore o alla presenza di un collaboratore. Appaiono disposti ritmicamente attorno alla divinità secondo precisi schemi di simmetria, con l'inclinazione ritmica delle teste e senza un interesse verso la loro disposizione illusoria nello spazio: levitano infatti l'uno sopra l'altro (non l'uno "dietro" l'altro).

Maria poggia fiaccamente la mano destra sulla gamba del bambino, mentre lo cinge con l'altra, infilando le lunghe dita affusolate nella sua veste e alzando il ginocchio destro per sostenerne la figura. Il volto di Maria mostra un addolcimento duccesco, mentre pare estraneo a quel misto di espressività vivace e dolcezza di altre opere di Cimabue. 








Gesù, come consueto per l'epoca, appare come un giovane filosofo vestito all'antica, che rivela la sua natura divina benedicendo come un adulto. nella mano sinistra impugna un rotolo delle sacre scritture, un chiaro elemento di matrice orientale che rivela l'origine bizantina del modello.

Molto fine è il modo con cui i panneggi avvolgono il corpo delle figure, soprattutto della Madonna, che crea un realistico volume fisico. Non vi è usata l'agemina (le striature dorate).

La pala è incorniciata da un nastro di fitte decorazioni fitomorfe, intervallato da ventisei tondi bordati d'oro, con busti di Cristo (in cima), di angeli (nella simasa), di profeti e di santi (ai lati e nel bordo inferiore).

Cimabue con quest'opera stabilì un nuovo canone per l'iconografia tradizionale della Madonna col Bambino, con il quale si dovettero confrontare i pittori successivi: la Maestà è il modello più diretto per la Madonna Rucellai di Duccio di Buoninsegna, già in Santa Maria Novella e oggi agli Uffizi (con un trono analogo, e con una cornice con testine di santi quasi identica), che viene per questo attribuita a pochi anni dopo, verso il 1285 circa.




Da Wikipedia: Maestà del Louvre

Bibliografia

Eugenio Battisti, Cimabue, Milano, Istituto Editoriale Italiano, 1963.
Enio Sindona, Cimabue e il momento figurativo pregiottesco, Rizzoli Editore, Milano, 1975. ISBN non esistente

Giusto de' Menabuoi - Battistero di Padova

Titolo dell'opera: Affreschi del Battistero di Padova
Autore: Giusto de' Menabuoi
Anno di esecuzione: 1375 - 1376
Luogo: Padova (Battistero)


Il battistero della Cattedrale, dedicato a san Giovanni Battista, è un edificio di culto ubicato accanto al Duomo, a Padova. Conserva al suo interno uno dei più importanti cicli ad affresco del XIV secolo, capolavoro di Giusto de Menabuoi.

La costruzione dell'edificio principiò nel XII secolo su probabili preesistenze; subì vari rimaneggiamenti nel secolo successivo, e venne consacrato dal Guido, patriarca di Grado (1281). Negli anni '70 del XIV secolo fu restaurato e adattato a mausoleo del Principe della città Francesco il Vecchio da Carrara e della moglie Fina Buzzaccarini che ne curò la decorazione affidando il lavoro a Giusto de' Menabuoi (che trovò in seguito sepoltura all'esterno dell'edificio). Con la caduta della signoria carrarese, nel 1405, i soldati veneziani demolirono le monumentali sepolture e coprirono con pittura verde i numerosi emblemi di Francesco il Vecchio. Restaurato a più riprese nel Novecento, attende ora un importante restauro complessivo.

Gli affreschi con cui è decorato (1375-1376) sono considerati il capolavoro di Giusto de' Menabuoi. Rispetto alle esperienze precedenti, a Padova dovette essere colpito dalle ordinate fissità romaniche e bizantine, come testimonia il grande Paradiso nella cupola del Battistero: la scena è organizzata attorno a un Cristo Pantocratore, dove ruota un'ipnotica raggiera a più strati con angeli e santi, le cui aureole in file ordinate ricordano, guardate dal basso, le punzonature di una magnifica oreficeria.






Nel tamburo dipinse invece Storie della Genesi, sui pennacchi i Profeti ed Evangelisti, dove già dimostrò un estro meno bizantino, come le figure inserite entro veridiche stanze illusionisticamente dipinte. Anche nelle Storie di Cristo e del Battista, sulle pareti, compaiono delle architetture finemente calcolate, dove il pittore inserì le sue solenni e statiche immagini. Più libera appare invece la raffigurazione negli episodi di contorno, come nelle Nozze di Cana, dove una schiera di servitori si muove con naturalezza nella stanza, a differenza degli statici commensali. Dall'analisi di queste scelte stilistiche si evince come l'uso o meno di effetti retrò fosse per Giusto una precisa componente volutamente cercata per fini espressivi e simbolici: è forse l'unico pittore del Trecento che ha la consapevolezza per scegliere via via quale linguaggio adoperare.

Nella scena della Creazione del mondo lo zodiaco esprime la funzione di Cristo come signore del tempo cosmico. Dio Padre può interrompere il corso degli eventi naturali per manifestare all'uomo il proprio volere: ciò avvenne, per esempio, durante le tre ore di eclissi solare che accompagnarono l'agonia e la morte di Gesù. Attraverso gli angeli, qui rappresentati, Dio domina e neutralizza l'influsso degli antichi demoni planetari sul mondo sublunare.

Da Wikipedia: Battistero di Padova
Bibliografia

Guida rossa, Veneto, Milano, Touring Club editore, 1997, pp. 424-425, ISBN 88-365-0441-8.

Simone Martini - Storia di San Martino (Cappella di San Martino - Assisi)

Titolo dell'opera: Storia di San Martino
Autore: Simone Martini
Anno di esecuzione: 1316 - 1317
Luogo: Assisi (Basilica Inferiore)

La cappella di San Martino è la prima cappella a sinistra nella basilica inferiore di San Francesco d'Assisi. Voluta e finanziata dal cardinale Gentile Partino da Montefiore, fu interamente affrescata da Simone Martini nel 1313-1318. Il suo ciclo di affreschi è una delle opere più significative del maestro senese.







Partino da Montefiore
Gentile Partino da Montefiore era il cardinale della basilica dei Santi Silvestro e Martino ai Monti a Roma. Un documento del marzo 1312 testimonia lo stanziamento da parte del cardinale di 600 fiorini d'oro per costruire ed affrescare una cappella nella basilica inferiore di San Francesco. Nella primavera dello stesso anno il cardinale è documentato a Siena, in viaggio per Avignone in quanto incaricato di trasferire il tesoro pontificio presso la nuova sede francese. A Siena probabilmente si accordò con Simone Martini per l'affrescatura della cappella. Nell'ottobre dello stesso anno, il cardinale morì a Lucca, prima di raggiungere Avignone.

Simone Martini lavorò nella cappella in almeno tre fasi. Iniziò i lavori nel 1312-1313, lasciando sospesa la Maestà del Palazzo Pubblico di Siena a cui stava lavorando. In questa prima fase realizzò ad Assisi i disegni per le vetrate e forse iniziò gli affreschi. Tornò a Siena intorno al 1314 per ultimare la Maestà, per poi tornare di nuovo ad Assisi dopo il giugno del 1315. Qui iniziò la seconda fase con la realizzazione di tutti gli affreschi della cappella. Nel 1317 fu chiamato da Roberto d'Angiò a Napoli, ma subito dopo tornò ad Assisi, per ultimare (e in alcuni casi rifare) gli affreschi di santi a figura intera sotto l'arcone di ingresso. I lavori furono compiuti probabilmente entro il 1318.

Lo stile di Simone Martini in questi anni è realistico e oltretutto raffinato nei modi con cui vengono raffigurati i personaggi, i loro volti, le loro posture, il tocco delle loro mani. Simone è estremamente abile nella resa di linee fisionomiche dei volti a dare personaggi naturalistici, veri, tutt'altro che stereotipati. Ciò si nota proprio nei volti dei personaggi secondari degli affreschi quali i musici di corte nella scena dell'Investitura del santo a cavaliere o della guardia che svetta tra l'imperatore e il santo nella scena della Rinuncia alle armi o ancora nel volto del personaggio perplesso nella scena del Miracolo del fanciullo risuscitato. Il realismo lo si nota anche dalla cura con cui sono raffigurati tessuti e oggetti. Simone è un pittore cortese, laico anche nella rappresentazione di soggetti religiosi, quasi cavalleresco.



In questi affreschi Simone mostra anche di ricevere l'influenza di Giotto, che proprio in questi anni stava affrescando il transetto destro della stessa basilica. Risultati di quest'influenza sono la collocazione delle scene in contesti architettonici resi con un'opportuna resa prospettica e una maggiore attenzione per le vere fonti di luce nella resa dei chiaroscuri. Le volumetrie dei santi a figura intera del sottarco di ingresso, gli ultimi affreschi realizzati da Simone in ordine cronologico in questa cappella, sono un ulteriore avvicinamento allo stile di Giotto. Tuttavia Simone non si adeguò passivamente alla scuola fiorentina, anzi è chiara una divaricazione tra il suo modo di dipingere e quello giottesco a partire dallo stesso tema dei dipinti: non le storie di un santo popolare come san Francesco, ma un raffinato santo cavaliere, del quale Simone sottolineò alcuni aspetti cortesi della leggenda. 


Per esempio nella famosa scena dell'Investitura di san Martino, l'azione è ambientata in un palazzo, con i musici di corte magnificamente abbigliati e con un servitore con tanto di falcone da caccia in mano. Il contesto di Simone è più fiabesco e assolutamente notevole è lo studio realistico dei costumi e delle pose; l'individuazione fisionomica nei volti non ha pari in tutta la pittura dell'epoca, Giotto compreso. Anche la resa cromatica beneficia di un maggior repertorio di tinte.

In sintesi, con questi affreschi Simone si confermò come pittore laico, cortese, raffinato. Fu in questi anni che si concretizzò la sua capacità di ritrarre fisionomie naturali, gettando le basi per la nascita della ritrattistica.







Bibliografia

Marco Pierini, Simone Martini, Silvana Editore, Milano 2002.
Pierluigi Leone de Castris, Simone Martini, Federico Motta Editore, Milano 2003.

Pietro Lorenzetti

Pietro Lorenzetti

Le notizie sicure sulla vita di Pietro Lorenzetti sono assai scarse e si limitano, in massima parte, alle date che egli appose sui suoi lavori (quattro pervenute) e a qualche documento. Non se ne conosce né la data di nascita, né quella di morte, calcolabili solo in maniera approssimativa. Né tantomeno offre un aiuto sostanziale la biografia che di lui redasse Giorgio Vasari, la prima, poiché sebbene lo storico aretino si dilunghi in elogi dell'opera del Lorenzetti, egli compì alcuni macro-errori proprio a partire dal nome, che travisò in "Pietro Laurati" mal leggendo la firma "Petrus Laurentii" della Madonna oggi agli Uffizi, e non mettendo mai in relazione l'artista col fratello Ambrogio, nonostante egli avesse potuto leggerne le firme in quanto frater nei perduti affreschi della facciata dell'ospedale di Santa Maria della Scala a Siena.
Inoltre non gli assegnò la sua opera più importante, ovvero gli affreschi nel transetto sinistro della basilica inferiore di Assisi, assegnandoli a Puccio Capanna, Pietro Cavallini e Giotto. Ritenne infine erroneamente di sua mano la Tebaide nel Camposanto monumentale di Pisa.

Lorenzo Ghiberti invece non nominò mai Pietro, assegnando anche gli affreschi di Santa Maria della Scala al solo Ambrogio e dimostrando come neanche lui ne avesse letta la firma. La sua formazione dovette compiersi sotto Duccio di Buoninsegna, assieme al coetaneo Simone Martini.


da Wikipedia: Pietro Lorenzetti

Giotto - Maestà di Ognissanti

Titolo dell'opera: Maestà di Ognissanti
Autore: Giotto
Anno di esecuzione: 1310
Luogo: Firenze (Galleria degli Uffizi)


Questa pala venne probabilmente dipinta dal maestro al ritorno a Firenze dopo essere stato ad Assisi; altri critici la collocano a un'epoca un po' più tarda, dopo vari viaggi, verso il 1314-1315, dopo comunque gli affreschi della Cappella degli Scrovegni di Padova, quando era così noto da far scrivere a Dante la famosa menzione nella Divina Commedia (Purgatorio, XI, 94-96), in cui si cita, a proposito della transitorietà della fama, come quella di Giotto abbia ormai eclissato il maestro Cimabue. Nonostante i pareri contrastanti circa l'autografia, è ritenuta da tutta la critica capolavoro autografo di altissima qualità e di grande importanza nel percorso artistico dell'artista nonché nello sviluppo dell'iconografia della Maestà.

La prima menzione dell'opera risale al 1418 quando l'altare dove si trovava in Ognissanti, l'ultimo a destra, veniva ceduto a un tale Francesco di Benozzo. Il più antico riferimento a Giotto come autore della tavola si ha con Lorenzo Ghiberti, che nei Commentari descrisse una «tavola grandissima di Nostra Donna a sedere in una sedia con molti angeli intorno».

Una collocazione originaria così defilata è poco credibile, e probabilmente la tavola si doveva trovare in principio sul lato destro del tramezzo, la recinzione che prima del Concilio di Trento divideva nelle chiese la zona dei sacerdoti (il presbiterio) da quella dei fedeli, oppure su un altare ad esso accostato. Il Bambino benedicente infatti è voltato di tre quarti e con lo sguardo verso sinistra.

Nel 1810 la pala venne secolarizzata, togliendola dalla chiesa e destinandola ai depositi di dipinti che si andavano costituendo presso la Galleria dell'Accademia, passando nel 1919 agli Uffizi.

Il confronto con le opere precedenti dà un valido metro di come l'arte di Giotto si muovesse ormai verso un radicale rinnovamento della pittura, anche se non mancano stilemi arcaici come il fondo oro e le proporzioni gerarchiche, queste ultime dovute forse alla necessità di mostrare il maggior numero possibile di fedeli attorno alla Vergine. Il tema della Maestà è reinterpretato con grande originalità, incentrato sul recupero della spazialità tridimensionale degli antichi e sul superamento della frontalità bizantina.

La Madonna e il Bambino hanno un volume solido, ben sviluppato in plasticità, dal netto contrasto tra ombre e lumeggiature, molto più che nella vicina opera di Cimabue (la Maestà di Santa Trinita) di circa dieci anni anteriore. Il peso così terreno delle figure è evidenziato dalla gracilità delle strutture architettoniche del trono. Raffinati sono i colori, come il bianco madreperlaceo della veste, il blu di lapislazzuli del manto, il rosso intenso della fodera. Maria è una matrona che, in maniera del tutto originale, accenna quasi un sorriso, dischiudendo appena le labbra e mostrando da uno spiraglio i denti bianchi.

Giustizia
Le figure sono incorniciate da un raffinato trono cuspidato, creato secondo una prospettiva intuitiva ma efficace, che accentua la profondità spaziale, nonostante il fondo oro. Esso si ispira a Cimabue, ma ha anche una straordinaria somiglianza con quello della Giustizia della Cappella degli Scrovegni. Originalissima è poi la disposizione dei due santi nell'ultima fila, visibili solo attraverso il traforo del trono, che assomiglia a un trittico richiuso o a un ciborio ornato di incorstazioni marmoree.











Tutti gli sguardi degli angeli convergono verso il centro del dipinto, con l'innovativa rappresentazione di profilo di alcuni di essi, una posizione riservata solo alle figure sinistre (Giuda, i diavoli...) nell'arte bizantina. Essi hanno in mano doni per la Madonna: una corona, un cofanetto prezioso e vasi con gigli (simboli di purezza) e rose (fiore mariano): i vasi sono tra i primi esempi in ambito medievale di "natura morta", già sperimentata da Giotto nella Cappella degli Scrovegni.

A differenza delle opere più antiche, Giotto ricava uno spazio pittorico nel quale dispone con verosimiglianza gli angeli e i santi: essi sono ancora rigidamente simmetrici, ma non lievitano ormai più uno sull'altro, né sono appiattiti, ma si collocano con ordine uno dietro all'altro, ciascuno diversificato nella propria fisionomia, finemente umanizzata rivelando un'inedita attenzione al dato reale.



La tecnica pittorica è molto avanzata ed ha completamente sorpassato la schematica stesura tratteggiata del Duecento, preferendo una sfumatura delicata ma incisiva e regolare, che dà un volume nuovo alle figure. Il senso del volume ottenuto col chiaroscuro, le forme scultoree, quasi dilatate, e la semplificazione delle forme saranno il punto di partenza per le ricerche di Masaccio.

Bibliografia

AA.VV., Galleria degli Uffizi, collana I Grandi Musei del Mondo, Roma 2003.
Gloria Fossi, Uffizi, Giunti, Firenze 2004, pag. 110. ISBN 88-09-03675-1
Maurizia Tazartes, Giotto, Rizzoli, Milano 2004. ISBN non esistente
Luciano Bellosi, Giotto, in Dal Gotico al Rinascimento, Scala, Firenze 2003. ISBN 88-8117-092-2
Edi Baccheschi, L'opera completa di Giotto, Rizzoli, Milano 1977. ISBN non esistente